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STORIA DELLA CANZONE ITALIANA

Italia Canora :: MUSICA LEGGERA (vecchi ricordi) :: 

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Messaggio  admin_italiacanora Mar Mag 24, 2011 2:00 pm

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1. PREMESSA

Ci sforzeremo in questi appunti di raccogliere alcuni pensieri sparsi attorno ad un fenomeno, la cosiddetta musica  leggera e segnatamente la canzone italiana, alle quali non pochi di noi sono emotivamente legati.


Canzone è un termine che designa in origine un componimento poetico specifico. La canzone appunto, ma non destinata esplicitamente al canto.

Canzone e canzonetta. Cenni e struttura. In rima (Petrarca) e libera (Leopardi). La canzonetta (Chiabrera):  un’ode particolare destinata al canto.

Se la "sonata" rimonta  a Frescobaldi, la "cantata"  parte da Monteverdi. È a quest'ultimo che si dovrà fare sempre riferimento per rintracciare una tendenza sempre viva della civilizzazione culturale italiana: l'oralità e la disposizione al canto. Monteverdi sta a Frescobaldi come Petrarca a Boccaccio.

Il testo italiano poetico della grande tradizione letteraria ha in qualche modo connessione col canto: Dante scrive la “Divina Commedia” e la divide in “Cantiche”; scrive “Canzoni” Petrarca e “Canzoniere” si intitola la sua più fortunata raccolta poetica.  “Cantari” vengono anche chiamati i poemi cavallereschi in ottava rima quali l’"Orlando furioso" e "La Gerusalemme liberata". Anche  Leopardi intitola la sua più nota raccolta “Canti” e "Canzoniere" anche la raccolta di versi di Umberto Saba. Gli italiani, colti o ignoranti,  “cantano” sempre. Perché? Per un fenomeno che è stato poco studiato, secondo me. La canzone raccoglie come forma privilegiata  di espressione artistica alcune istanze di fondo della civilizzazione culturale italiana. Quali?

In primo luogo l’oralità ossia l’attitudine ad esprimersi attraverso forme di comunicazione non scritta. (Anche la straordinaria fortuna del karaoke e del telefonino va  messa in connessione con questa specificità antropologico-culturale degli italiani). Il fenomeno è rintracciabile a partire dalla Controriforma e del permanente divieto delle Autorità ecclesiastiche di tradurre le Sacre Scritture nella lingua dei parlanti. Mentre altrove (nell’Europa fredda) il processo di incivilimento prevede l’apprendimento della scrittura (spesso compiuta nel Libro per eccellenza, la Bibbia, tradotta già in tedesco da Lutero, oppure nel Prayer Book in ambito anglosassone), in Italia invece il divieto blocca l’apprendimento della scrittura come fenomeno di massa e quindi l’uso della scrittura come forma privilegiata e “naturale” di comunicazione. Ciò significherà ad esempio che l’Italia salterà la stagione del romanzo sette-ottocentesco a favore del melodramma. Mentre altrove si affronterà la “prosa del mondo” (Hegel) con la prosa del romanzo, in Italia permarrà l’inclinazione lirico-melica ad esprimersi precipuamente attraverso la parola e il canto. È un bene? È un male? Comunque sia... è  l’Italia!

In secondo luogo occorre ricordare la predominante occupazione e preoccupazione lirica della tradizione poetica italiana, ritenuta, a torto o a ragione, dagli italiani letterati e illetterati, la forma suprema di espressione artistica. In connessione a ciò occorre sottolineare il peso prepotente della tradizione artistica poetica in special modo lirica (più che epica o narrativa come invece ad es: nell’"Orlando Furioso" dell’Ariosto) su quella prosastica tout court. Petrarca contro Boccaccio insomma. Il petrarchismo endemico in Italia, alla lunga, l’avrà vinta sulla prosa di Boccaccio e sulla possibilità di rendicontare il reale sotto  forma prosastica e narrativa. L’inclinazione lirica, l’atto di porgere alla propria amata o al mondo intero le proprie “spremute di cuore” per dirla con le parole di una “canzonetta” ("Teorema", di H.Pagani, cantata da Marco Ferradini) è ritenuto dai più il non plus ultra  in fatto di espressione e comunicazione artistica.

In terzo luogo occorre rammentare che, per quanto possa sembrare incredibile, la comunicazione musicale è quella che più si offre, come mezzo reale ed immediato, ad un popolo di semianalfabeti. È l’espressione privilegiata di una società e di un mondo socioculturalmente arretrati. (Vedi l’impatto che ha la musica presso i negri d’America o in Brasile). Pochi sospettano che anche i più grandi “musicisti” moderni, quali Lucio Battisti, non conoscevano la musica nel senso tecnico e professionale del termine. Escluso Ivano Fossati, Paolo Conte, Enrico Ruggeri e pochi altri, i “musicisti” italiani sono dei praticoni delle note, dei geniali praticoni: pochissimi sanno leggere uno spartito e moltissimi eseguono la musica “a orecchio”.  In connessione a ciò, occorre ricordare pertanto che la canzone italiana, in quanto frutto di una pletora infinita di praticanti ed amatori, è una espressione compiuta del genio collettivo italiano. Essa non nasce da un  talento solitario e romantico, tutt’altro. Fino all’avvento dei cantautori, ma anche oltre, mai come per la canzone italiana - confezionata da una massa anonima di parolieri, arrangiatori, musicisti, improvvisatori - si può dire che essa nasca dalle masse per ritornare alle masse. E anche quando essa sortisce dallo sforzo individuale di un artista, tale e tanta è la sua "domanda"  indiretta, sociale, che  nessun'altra forma artistica più di essa è consentanea alle masse, che ne sono, ad un tempo, produttrici e  voraci consumatrici. Essa è perciò sorgiva ed aurorale forma di espressione popolare. Anche con l’avvento dell’industria discografica e quindi con l’apertura  di un mercato reale che offre sempre più, ad una larga schiera di cantanti, parolieri, musicisti, e arragiantori vari, l’opportunità di poter vivere di musica (“Papà, qui mi pagano!, dirà Mina), si è potuto riscontrare nella sua intima  verità questo fenomeno: tanto è vero che quasi  un intero popolo ha  creduto, negli anni ’60, di poter mettere su un complesso e di esprimersi con una canzone e di conquistare il successo, la notorietà e una quantità sufficiente di denaro per sottrarsi alla timbratura quotidiana del cartellino.

Certamente la tradizione poetica designa  altri  componimenti destinati al canto: il madrigale, la frottola, la ballata etc. Quest’ultimo  componimento poetico di origine provenzale del XII sec. (destinato espressamente al canto e al ballo) alterna un ritornello (o ripresa) alla stanza (o strofa). Per molti versi è la struttura invariata della canzone moderna. Quest’ultimo genere avrà tanta fortuna che arriverà intatto fino ai giorni nostri. ( "La canzone di Marinella"  di De André è tecnicamente una  ballata , come anche  "Il ragazzo della via Gluck" , "La ballata di Cerutti Gino" di Gaber, "Ciao amore ciao" di L.Tengo (1967),  "Borghesia"  di Claudio Lolli,   "4 marzo ’43" (Pallottino – Dalla 1971).

Per ballata in senso moderno (nella canzone italiana o francese) si intende una canzone di  facile motivo musicale e/o  di chiara intonazione  popolare – molto usata dai contastorie peraltro - dove l’elemento narrativo (la storia di qualcuno) prevale su quello lirico-espressivo. (Questa è di Marinella la storia vera/che scivolò in un fiume a primavera...Questa è la storia di uno di noi/anche lui nato per caso in via Gluck...)

Nella poesia, la ballata romantica di origine tedesca molto diversa per rime e ritmi da quella antica e medievale è introdotta in Italia nell’800 e verrà chiamata  talora “romanza” (Berchet). Da non confondere con  la  romanza da salotto, che è   un componimento molto simile, quando non derivato,  dall’aria dell’opera lirica o dell’operetta, dove prevale il dispiegamento del canto libero e melodioso e l’intonazione apertamente lirica. (Esempi moderni, molto belli e convincenti,  sono  "Con te partirò " (Quarantotto – Sartori 1995) cantata da A. Bocelli o anche  "Fotoromanza"  di G. Nannini), la quale porta anche nel titolo la dichiarazione di appartenenza al genere, seppure la bella canzone sia un impasto originale di rock e tradizione melodica italiana.

La canzone italiana così come la conosciamo noi nasce alla fine dell’ ’800, (per Gianni  Borgna addirittura a metà dell’’800 con "Santa Lucia") dalla romanza da salotto o dalle arie  dell’operetta,  si sviluppa per tutto il ‘900, ha il suo momento magico di larghissima diffusione popolare (grazie anche all’invenzione dei mezzi tecnici di riproduzione e di ascolto a basso costo, il giradischi e il disco di vinile) negli anni 50-80 con il suo picco negli anni ’60 e metà dei ’70. Insomma dal primo festival di San Remo (1951 ) alle prine radio libere (1974).
Ma il suo momento magico è a mio avviso da collocare  negli ’80. È in questo decennio che sono in azione e in piena attività geni puri della canzone: Ivano Fossati, Franco Battiato, Antonello Venditti, Renato Zero, Gianna Nannini, Maurizio Fabrizio, Roberto Vecchioni, i Matia Bazar, Dalla, Guccini, De Gregori etc.

Musica e parole
La questione ha avuto una trattazione "alta", già in ambito operistico,  con le polarizzazioni di Monteverdi ("La musica serva delle parole") e Salieri ("Prima la musica e poi le parole").  Nel nostro ambito è solo un modesto  buon senso che ci spinge ad asserire che in effetti sia musica che parole sono inscindibili nella  composizione, esecuzione ed ascolto della canzone. È praticamente impossibile scindere i due elementi che bisogna cogliere invece nella loro indissolubile unità. Possiamo dire che le parole senza la musica sono vuote e la musica senza parole è cieca. Spesso accade che ad una musica geniale si accompagnino testi miserabili e viceversa. La perfezione si ha  quando i due elementi entrano in perfetto equilibrio e non sai più a quale dei due   attribuire il più forte peso fascinatorio.  Dice Gianni Borgna:« La parola nella musica non è la stressa che nella poesia. La parola poetica è musicale di per se stessa e mal sopporta l’aggiunta della musica. (...) Cos’è che rende “poetico” Il cielo in una stanza? Non certo il testo, in sé piuttosto banale, ma l’amalgama perfetto tra “quelle” parole e “quella” musica. Amalgama sia detto a scanso di equivoci, difficilissimo da realizzare».

Ma entrambi gli elementi giocano al ribasso: la canzone – a differenza della poesia - non si prende mai sul serio: risiede  qui la sua forza, e  la sua subdola e canagliesca presa sul  nostro animo. Essa lavora nella zona grigia del precordio, in una zona indistinta dell’animo, dove viene  archiviata dopo l’ascolto, spesso a nostra insaputa, tra i ricordi e le sensazioni di tutti i giorni, di modo che al riascolto di quella scattano subito questi.

La poesia chiede un processo intenzionale. La lettura o l’ascolto consapevoli. Le canzonette invece sono “nell’aria” sin dai tempi degli organetti di Barberia. Entrano nell’anima senza chiedere permesso e s’infiltrano nella memoria come dei cookies per usare un termine dell’informatica.  La poesia delle canzoni nasce dunque da un processo inintenzionale e come per magia, da materiali poveri, talora da un’accozzaglia di versi sciamannati (vedi  "Abbrozantissima"  e tutte le canzoni balneari e scacciapensieri degli anni ’60, piccoli capolavori di vitalità e ilarità italiane) e da una musica senza pretese (va bene anche il segnale della sirena dei pompieri come in  "Se telefonando"  cantata da Mina, musica di Ennio Morricone o il solito  “giro di do” ossia i quattro accordi do+, la-, re-, sol7) .

Molte canzoni ci fanno sentire più intelligenti dei loro autori, per questo le cantiamo volentieri, ma in fondo, quando  abbiamo finito di ascoltarle o cantarle, avvertiamo che nel giro breve dei due-tre   minuti  di mancata vigilanza, di perdita del nostro controllo, ebbene… pensieri, immagini, sensazioni, sono transitate subdolamente   da una mente all’altra da un cuore all’altro: insomma è avvenuto un processo, seppur piccolo e senza pretese, di  istillazione  e trasferimento di poesia.

Ma una canzone è legata ad un’epoca della nostra vita, spesso al volgere breve di una stagione (non solo l’estate). È un nostro segnatempo interiore. È in tal senso che la canzone  è   l’accompagnamento naturale del  vivere quotidiano. Come dice O. Wilde essa ha il potere di ricordarci “Un passato personale che fino a quel momento ignoravamo” (cit. in G.Borgna).

Diceva Flaubert a   proposito delle canzonette: « Ci si stupisce della perfezione di alcune canzoni popolari. Chi le ha scritte spesso non è che un imbecille, ma quel giorno che le ha scritte ha “sentito” meglio di una persona intelligente». (Brano tratto dalla "Corrispondenza").

Canzone e leggerezza
Spesso il testo sta alla canzone come i cartoni animati alla realtà.  C’è una sintesi dei caratteri e della sostanza della realtà, ma non la realtà: le  parole  sono allusive e sfumate, e spesso, per l’obbligo della rima, raggiungono forme di artificio verbale che volentieri   perdoniamo loro: è una canzone, ci diciamo, ed è così che vorremmo… "perderci ad Alghero in compagnia di uno straniero" o  "mentre al suo cuor mi stringeva, come pioveva, come pioveva…"
Diceva François Truffaut che «le canzoni che più mi hanno segnato sono anche le più stupide».   Il periodo in cui la canzone italiana ha raggiunto il massimo della leggerezza e del disimpegno - assolvendo però egregiamente ad uno dei suoi elementi costitutivi -, è stato negli anni ’60, in quelle canzoni balneari, scacciapensieri, talora  sciocche  talora geniali, tutte sabbia penne fucili ed occhiali che non si ponevano come obiettivo che di accompagnare un amore estivo, una giornata di  riposo, una stagione bella e fuggente. Dico che in quelle canzoni le parole hanno una evanescenza intenzionale, indicano le cose (gli amori, le passioni) come attraverso dei filtri  colorati: sono già  flou nel nascere.

Tutto ciò è durato fino ai primi anni 70: quando forse per effetto delle tensioni nella società italiana che diedero avvio ad una sorta di "inverno del nostro scontento" che dura tuttora, si riversarono sulle canzoni  secchiate di pianto e monsoni di spasmi e  lamenti. (Fu Claudio Baglioni ad inaugurare la stagione delle ugole bagnate di pianto e delle lacerazioni intime e soffocate: a lui si può ricondurre una vera e propria  scuola di "piagnoni" nazionali dal singhiozzo facile che arriva  fino a Luca Carboni, Alessandro Baldi, Marco  Masini, e dalla quale ancora non ci siamo ripresi: "Tu come staaai", eh! come sto...).

Dell'ascolto all'italiana. Non udire, ma "traudire"
L'ascolto della musica "all'italiana" è uno dei modi tipicamente nazionale di esperire il fatto musicale. Com'è questo ascolto? Assolutamente simpatetico ed empatico, ossia non mediato da atteggiamenti  mentali di tipo  culturale. Fu Stendhal il primo a notarlo, alla Scala. Lo racconta in "Roma, Napoli, Firenze". Notò che tutti gli spettatori alla Scala non stavano attenti allo svolgersi dell'azione drammatica che si svolgeva in scena. Ognuno faceva quello che voleva: chiacchierava, mangiava "pezzi duri" (gelati) , amoreggiava. Poi, all'improvviso, all'appressarsi dell'aria - che tutti presagivano nell'aria (è il caso di dire), lasciavano le loro "occupazioni" e nel più totale e improvviso silenzio gustavano l'aria o la cavatina che fosse. Considerazioni analoghe ebbe a fare quell'eccentrica signorina vittoriana che studiò la vita musicale italiana del '700 sotto falso nome maschile di Vernon Lee (al secolo si chiamava Violet Paget). Sulla scia del viaggiatore inglese  Charles Burney, la Lee ebbe a studiare il particolare rapporto empatico degli italiani con la musica. Osservò che la musica dei francesi era una festa per gli occhi e un inferno per gli orecchi, mentre i tedeschi trasformavano un piacere in dovere ed eccoli tutti compunti e seriosi davanti alla rappresentazione musicale. E gli italiani? Non sospendevano la vita per godere della musica. No, la musica viveva con loro, era un fatto naturale della vita: potevano dedicarsi  a qualsiasi occupazione, ed ecco che al momento giusto prendevano in mano uno strumento e lo suonavano d'impeto. Come dirà Mario Praz, raccogliendo le confidenze di Violet Paget, si potrebbe dire che gli italiani non "udivano" la musica, ma la "traudivano": era come se fossero in un'altra stanza, a fare tutt'altro, mentre nella stanza accanto si suonava il piano. Da queste sue osservazioni di natura antropologica la Violet Paget trasse poi saggi di estetica ("The beautyful") oltre che il suo volume di studi "La vita musicale nell'Italia del Settecento" (Studies of the Eighteenth Century in Italy). La sua estetica poggia proprio sul principio dell'Einfühlung ossia quell'empatia che gli sembrò  contraddistinguesse gli italiani nell'esperire il fatto estetico e musicale.
Questo ascolto all'italiana, certamente, non è proprio un gran complimento: poggia sul principio che gli italiani, non avendo adeguate conoscenze culturali (musicali), fanno affidamento sui dati del senso e dell'immediatezza; come anche sullo stereotipo dell'italiano che entra d'emblée in sintonia con lo strumento (magari il mandolino). Ma se cogliesse almeno in parte il nostro modo di ascoltare musica e di farla, sarebbe da non prendere almeno in considerazione?

I letterati,  i cineasti e la canzonetta
Arbasino sosteneva che  "Il cielo in una stanza" è superiore a qualsiasi sinfonia minore di qualsiasi periodo...Pasolini diceva che le canzoni hanno “un valore obiettivamente poetico” (cioè che  se non sono proprio poesia ne hanno il pieno valore: quella di Pasolini è la più ampia apertura di credito). Lo stesso Pasolini oltre che Calvino offrirono i propri versi da destinare alle canzoni. Nei film degli anni sessanta le canzonette balneari si ascoltavano usualmente in  sottofondo, ne "La bella da Lodi" di Missiroli (1963) dal libro omonimo di Arbasino, ne "Il sorpasso" di Dino Risi e in altri. Visconti fu tra i primi mostri sacri del cinema a mettere in sottofondo una canzonetta dell’epoca ("La mia solitudine sei tu" cantata  da Iva Zanicchi, nel film ..."Ritratto di una famiglia in un interno", 1972) Ma è con Nanni Moretti che la canzonetta cantata in coro da una famigliola prima della tragedia ("Insieme a te non ci sto più", "La stanza del figlio", 2001, e la stessa canzone era presente anche in "Bianca", 1984) o dal protagonista per tirarsi di impaccio da un assedio di giornalisti ("E ti vengo a cercare", "Palombella rossa", 1989) o un’altra ancora per “staccare” violentemente da una situazione d’impasse ("Ritornerai" di B. Lauzi sempre in "Bianca", 1984). Il fenomeno si è attestato ormai a consuetudine, come dimostra il bel film di Muccino "Ricordati di me" (2003) ("Almeno tu nell'universo ", vecchia canzone di Mia Martini, ripresa da una nuova interprete che ahimè non raggiunge il potente pathos canoro della prima interprete). Nel film "Ladro di bambini" di Gianni Amelio la canzone di Gianna Nannini "Fotoromanza" che fuoriesce dagli altoparlanti di un gelataio e si irradia in una giornata piena di luce meridionale, ha la funzione narrativofilmica  di "staccare" dopo una serie di sequenze buie e angosciose ambientate a Milano e in una periferia romana senza speranza.

Il disco microsolco a 45 giri cominciò ad essere diffuso in maniera massiccia nel 1958 e fu destinato a soppiantare il vecchio e ingombrante 78 giri. Nel 1958 si vendettero 17 milioni dischi, 12 nell’anno precedente.

I cantautori
Il termine di cantautore venne coniato da Maria Monti, Gianni Meccia, Enrico Polito, Rosario Borelli della Ricordi nel 1960. Forse anche per far rima con urlatore, che era il termine col quale si designarono alla fine degli anni ’50 i cantanti che urlavano all’americana: Celentano, Gaber, Mina. Tutto avvenne quando alla Ricordi, Nanni Ricordi e Franco Crepax, decisero di affiancare alla casa editrice anche un’etichetta discografica. Si videro affluire sui loro tavoli centinaia di canzoni eccentriche per l’epoca e decisero di farle cantare agli autori stessi col nome da poco inventato. I cantautori erano Paoli, Bindi, Tenco, De André, Lauzi, Endrigo. La notizia è riportata da "Il Musichiere" del 17 settembre 1960. Era nato un vocabolo  nuovo e un nuovo modo di cantare.
...Ma  di questo un'altra volta..
Fonte: QUI


Ultima modifica di admin_italiacanora il Dom Ott 13, 2013 3:14 pm - modificato 1 volta.
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STORIA DELLA CANZONE ITALIANA Empty LA MUSICA LEGGERA E LA CANZONE ITALIANA

Messaggio  admin_italiacanora Mar Mag 24, 2011 2:43 pm

2. LA MUSICA LEGGERA E LA CANZONE ITALIANA
 
 
Che cos’è la musica leggera
Per musica leggera si intende un insieme di tendenze musicali che hanno avuto origine verso la fine del
XIX secolo.
Essa è caratterizzata da un linguaggio relativamente semplice e in alcuni casi schematico.
La musica leggera è strettamente inserita nel circuito commerciale mondiale e viene diffusa attraverso
tutti i mezzi di comunicazione:
• incisioni discografiche
• video
• festival, concerti-spettacolo
• internet
• trasmissioni televisive

I precursori della musica leggera
In pressoché tutte le culture è stata attestata la presenza di una forma musicale con elementi popolari destinata all'intrattenimento.
In questa categoria rientrano:
• le composizioni dei menestrelli medievali francesi e tedeschi
• la chanson in Francia (XIV-XVI secolo) Musicisti del Medioevo
• il madrigale in Italia (XV secolo)

Con l'introduzione della stampa musicale, attorno al 1500, ebbe inizio la vendita e la circolazione degli spartiti.

Le nuove possibilità di consumo legate all'avvento della rivoluzione industriale nel Settecento consentirono a un maggior numero di famiglie di acquistare strumenti musicali.

I fabbricanti iniziarono a produrne in serie e presto il pianoforte e la chitarra divennero prodotti commerciali standard.
Si cominciarono a vendere trascrizioni di brani orchestrali e operistici per l'esecuzione domestica.

Le origini della musica leggera
La musica leggera come la conosciamo oggi, nasce in Europa e negli Stati Uniti verso la fine dell’Ottocento.
Essa trae origine da due generi musicali molto diffusi in questo periodo:
• I canti e le danze popolari
• Il melodramma

La musica leggera e la canzone italiana
Durante il romanticismo i musicisti rivalutarono tutte le forme di canto e di danza popolare.
Danze come il valzer, la polka e la mazurka si diffusero presso la nobiltà e la borghesia di tutta Europa.
Nella seconda metà del secolo la nascita delle scuole nazionali favorì la creazione di composizioni musicali basate su temi popolari.

Alla fine dell’Ottocento il melodramma era il genere di spettacolo musicale più diffuso in tutta Europa.
Le arie d’opera più famose erano conosciute da tutti e nei salotti della borghesia venivano spesso eseguite con l’accompagnamento del pianoforte, come vere e proprie canzoni.

La nascita di un’industria
L'invenzione del fonografo di Thomas Edison (1877) rese ancora più accessibile il consumo domestico della musica.
Prima del 1900 comparvero i primi fonografi a gettone (precursori del jukebox) e già allo scoppio della prima guerra mondiale molti musicisti incidevano dischi.
La radio negli anni Venti e la televisione negli anni Quaranta introdussero nelle abitazioni private musica dal vivo e registrata.
Il cinema sonoro diede popolarità a molti cantanti.
L'industria della musica leggera si espandeva, interessando un numero sempre maggiore di figure professionali a essa legate .
Compositori ed editori iniziarono a tutelare i loro diritti commerciali: nacquero così le leggi sul diritto d'autore e nel mondo dello spettacolo si formarono sindacati per difendere i salari e regolamentare le condizioni di lavoro.
La diffusione della musica leggera cambiò il ruolo della musica nella vita quotidiana.
Un tempo prerogativa delle classi più facoltose, la musica in ambito domestico divenne un elemento consueto
all'interno delle famiglie borghesi.

La canzone
Il genere musicale della “canzone” inizia diffondersi dalla fine dell’Ottocento.
Le principali caratteristiche della canzone sono:
• una linea melodica semplice e orecchiabile, spesso ispirata a temi e danze di origine popolare
• una struttura formale di tipo monopartita (strofica) o bipartita (strofa e ritornello)
• un accompagnamento eseguibile anche da un solo strumento (pianoforte, chitarra…)
• un testo facile da capire, di argomento spesso sentimentale o amoroso.

La canzone è senza dubbio il genere di musica leggera più diffuso in Italia.
Essa trae origine dal melodramma e dalla canzone napoletana.
Le arie d’opera  e la canzone napoletana avevano in comune:
• melodie molto orecchiabili da cantare a voce spiegata
• testi spesso di argomento amoroso o sentimentale.

Questi elementi andranno a costituire la base della canzone melodica, “all’italiana”.

La canzone italiana negli anni Venti e Trenta
Negli anni Venti la radio e del grammofono si diffondono anche in Italia offrendo la possibilità di ascoltare le canzoni straniere. Anche il cinema sonoro favorisce la conoscenza di stili musicali molto diversi da quelli tradizionali italiani.
Il fascismo conduceva però una politica di tipo nazionalistico anche in campo musicale, ostacolando il più possibile la diffusione delle canzoni straniere. Il regime incoraggiava invece la creazione e la diffusione di canzoni di stile e contenuti molto tradizionali:
• Melodie dal carattere allegro e spensierato
• Testi di contenuto piuttosto banale e insignificante o di tipo propagandistico.

Queste canzoni dovevano trasmettere l’idea di un’Italia senza problemi, dove la gente viveva senza preoccupazioni, paure e incertezze per il futuro.
Nonostante l’opposizione del regime, verso la fine degli anni Trenta anche in Italia incominciarono a diffondersi le orchestrine ritmiche che proponevano versioni italiane di grandi successi stranieri.

La canzone italiana negli anni Cinquanta
Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale in Italia si diffusero rapidamente tutte le mode musicali di origine straniera che erano state ostacolate negli anni precedenti dal regime fascista:
• le canzoni americane di Cole Porter e Frank Sinatra
• il jazz di Louis Armstrong e Benny Goodman
• le colonne sonore dei film di Hollywood
• i ritmi sudamericani della samba e della rumba

Per contrastare questa tendenza e favorire il ritorno alla canzone melodica all’italiana nasce nel 1951 il Festival di Sanremo.
La prima edizione del Festival di Sanremo, ideato negli anni del dopoguerra come iniziativa per risollevare l’economia e l’immagine turistica della cittadina ligure, ebbe luogo nel 1951.
La manifestazione si svolse nel Salone delle Feste del Casinò e venne trasmessa dalla radio. Fu proprio la trasmissione radiofonica delle prime quattro edizioni del festival a rendere popolari l’inconfondibile voce di Nunzio Filogamo e l’orchestra diretta dal maestro Cinico Angelici.
I veri protagonisti dell’evento, i cantanti, appartenevano alla solida tradizione del genere melodico italiano: Nilla Pizzi
• Achille Togliani
• Carla Boni
• Teddy Reno
• Gino Latilla.
Fu tuttavia Nilla Pizzi, interprete apprezzatissima dal pubblico, a vincere la prima edizione con “Grazie dei fior”.
Nel 1955, con la trasmissione della diretta televisiva, il Festival si trasformò in un evento di importanza nazionale.

E con altre trasformazioni si arriva finalmente alla canzone di oggi.
Fonte: QUI


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STORIA DELLA CANZONE ITALIANA Empty LA CANZONE ITALIANA NEGLI ANNI SESSANTA

Messaggio  admin_italiacanora Dom Ott 13, 2013 4:15 pm

3. LA CANZONE ITALIANA NEGLI ANNI SESSANTA
 
 
“Melodici e urlatori”
Nel 1958 Domenico Modugno trionfa a Sanremo con “Nel blu dipinto di blu”, una canzone che porta una decisa ventata di novità nel panorama della canzone italiana.
Sul finire degli anni Cinquanta si affermano in Italia alcuni cantanti che prendono a modello i “rockers” americani come Elvis Presley, Paul Anka e i Platters.
Nel 1958 Tony Dallara lancia la prima canzone rock italiana: “Come prima”.

Si crea così una spaccatura tra due categorie di cantanti:
• i “melodici” che restano legati alla tradizione
• gli “urlatori” che accolgono nelle loro canzoni gli elementi tipici del rock and roll.
Fra gli “urlatori” vengono inseriti in un primo tempo personaggi emergenti quali Mina, Adriano Celentano e Gianni Morandi. Questi artisti nel corso degli anni
daranno però prova della loro bravura fino ad essere ancora oggi considerati fra i migliori cantati italiani.

“I complessi beat”
Una seconda svolta nel panorama della canzone italiana avviene nella seconda metà degli anni Sessanta.
In questo periodo alle influenze del rock americano cominciano a sommarsi quelle del movimento beat inglese. Così anche in Italia nascono i primi complessi che prendono a modello principalmente i gruppi inglesi dei Beatles e dei Rolling Stones.
I nomi storici di questi complessi italiani sono:
  • I Giganti
  • L’Equipe 84
  • I Dik Dik
  • I New Troll
  • I Nomadi
  • I Pooh

Questi gruppi inizialmente si limitano ad imitare lo stile dei gruppi stranieri, ma ben presto svilupparono uno stile originale, legato alla tradizione melodica italiana.
Alcuni complessi, come la PFM (Premiata Forneria Marconi) e le Orme accolsero invece le tendenze più sperimentali del rock, senza ottenere però un grande successo di pubblico.

“I cantautori”
Il vero elemento di novità nella musica italiana degli anni Sessanta fu l’avvento di un gruppo di musicisti che prendevano a modello gli “chansonniers” francesi come Jacques Brel, Juliette Gréco, Gilber Bécaud, George Brassens, Charles Aznavour e altri.
In Italia questi musicisti furono chiamati “cantautori” perché, come i loro colleghi francesi, scrivevano i testi e componevano la musica delle proprie canzoni.

CANTAUTORE = CANTANTE + AUTORE
Le principali caratteristiche delle canzoni dei cantautori erano:
  • Melodie semplici, ma non banali.
  • Accompagnamento spesso affidato ad un solo strumento (chitarra o pianoforte) suonato dal cantante stesso.

Massima importanza data al testo che affrontava a volte temi di argomento sociale ma soprattutto rinnovava il repertorio di temi tradizionali (come l’amore e la famiglia) evitando i luoghi comuni e le banalità.

I cantautori più importanti degli anni Sessanta furono quelli appartenenti alla cosiddetta “scuola genovese”:
  • Umberto Bindi
  • Gino Paoli
  • Luigi Tenco
  • Bruno Lauzi
  • Fabrizio De André

In quegli anni si affermarono però anche i milanesi Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci, l’astigiano Paolo Conte e l’istriano Sergio Endrigo.

Nello stesso decennio emersero figure femminili come Milva, Ornella Vanoni e Mina che avrebbero dominato a lungo il panorama musicale italiano spaziando anche al di fuori della musica leggera.

La canzone italiana negli anni Settanta
Negli anni Settanta i complessi beat e rock che si erano affermati nel decennio precedente perdono progressivamente la loro carica innovativa.
Il fenomeno dei cantautori continua invece a diffondersi coinvolgendo nuove generazioni di musicisti. Durante gli anni Settanta si afferma un nuovo gruppo di cantautori:
  • a Roma: Francesco Guccini, Lucio Battisti, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Riccardo Cocciante, Claudio Baglioni, Renato Zero
  • a Milano: Eugenio Finardi, Angelo Branduardi , Roberto Vecchioni
  • a Genova: Ivano Fossati
  • a Bologna: Franco Battiato, Lucio Dalla, Francesco Guccini
  • a Napoli: Edoardo Bennato, Pino Daniele
  • in Sicilia: Franco Battiato

Ciascuno di loro sviluppa uno stile personale traendo ispirazione dai più diversi generi musicali: dal jazz al folk, dalla musica medioevale a quella etnica.
Questa generazione di cantautori si distingue da quella precedente per la maggior importanza attribuita all’aspetto “musicale” delle propri canzoni:
  • utilizza un maggior numero di strumenti musicali
  • arricchisce le proprie melodie con raffinati arrangiamenti.


La canzone italiana dagli anni Ottanta ad oggi
A partire dagli anni Ottanta i cantautori italiani tentano di imporsi all’attenzione del pubblico europeo adottando uno stile musicale più “internazionale”.
Vasco Rossi
Ricchissima e variegata è la galleria di autori e interpreti che, tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, hanno scalato le classifiche discografiche contribuendo talvolta a diffondere la canzone italiana nel mondo:
  • il rock melodico di Gianna Nannini e Ligabue,
  • i successi internazionali di Eros Ramazzotti, Vasco Rossi, Laura Pausini e Zucchero,
  • il riuscito abbinamento tra rap e pop di Jovanotti.


Negli anni Novanta si impongono grandi interpreti come Giorgia e Andrea Bocelli che rilanciano il gusto per l’aspetto più propriamente canoro della musica leggera.
Anche alcuni gruppi musicali emersi in questi ultimi anni esplorano nuove strade rielaborando generi musicali diversi come il rock, il folk e il rap.

L’evoluzione dei mezzi di diffusione sonora
Il Fonografo, la cosiddetta macchina parlante inventata da Edison nel 1877, madre di tutte le evoluzioni nel campo della riproduzione sonora, permette una breve incisione verticale su di un foglio di carta stagnola steso su di un cilindro.
Chichester A. Bell e Charles Sumner Tainter negli anni 1881-86 rimpiazzano il foglio di carta stagnola impiegando un cilindro in cartone ricoperto di cera.
Nuovamente Edison, nel 1888, proporrà una versione "finale" del fonografo dotando la sua creazione di un motore elettrico e producendo i cilindri dapprima in cera vegetale, poi in gommalacca.
Dobbiamo al tedesco Emile Berliner l'invenzione del disco.
Nel 1887, Berliner inventa e produce i primi grammofoni che permettono un'incisione laterale su disco. In pochi anni i dischi e i cilindri di cera invadono il mercato.
I due sistemi coesisteranno per diversi decenni sebbene piuttosto separati nei campi di impiego: i dischi saranno preferiti per la riproduzione musicale mentre i cilindri saranno impiegati soprattutto quale supporto per dittafoni.

Per quel che riguarda il disco, gli esperimenti sui materiali si susseguono e la celeberrima gommalacca sarà solamente l'amalgama più impiegata nella produzione di 78 giri.
La velocità di lettura del disco, tutt'altro che uniforme nei primi decenni del secolo, sarà normalizzata solamente nel 1948 sui 78 giri/min.
Il mercato dei cilindri e del disco in gommalacca a 78 giri subirà un forte ridimensionamento con l'avvento, negli anni '50, del disco vinile.
Il disco vinile 33 1/3 giri/min a lunga durata (LP) nasce nel 1947.
La sua robustezza, la lunga durata di incisione garantita dalla tecnica microsolco, la drastica riduzione dei fruscii e altri indubbi vantaggi sanciranno le ragioni del grande successo del disco LP.
L'avvento sul mercato del fratello minore del disco vinile, ovvero del 45 giri/min, segue a due anni di distanza.
Nel 1949 nasce infatti il piccolo del mercato discografico, un piccolo che avrà modo di invadere il mercato con le sue vendite milionarie. 45 giri è sinonimo di SINGLE: su questo supporto agile circoleranno i brani di successo, i single appunto, dei maggiori gruppi rock della storia.
La tecnologia raggiunge un grande risultato nel 1957 proponendo il primo disco vinile stereofonico.
L'avvento del CD confinerà i "dischi neri", perlomeno per quanto riguarda il mercato occidentale, in un settore di nicchia destinato ai cultori dell'analogico, ai DJ e ai rappers.
È del 1934 la prima versione di nastro magnetico proposta dalla BASF.
I nastri magnetici avranno largo impiego sia nel settore professionale, sia in quello commerciale (soprattutto nelle versioni di formato ridotto).
La possibilità di montare in studio delle vere e proprie trasmissioni, tagliando e unendo nastri anche di diversa provenienza, garantirà a questo supporto una grande fortuna in ambito professionale a partire dagli anni '50.
La musicassetta rappresenta l'espressione forse più democratica della riproduzione musicale. In molti paesi, soprattutto non industrializzati, la musicassetta è ancora oggi una delle voci principali delle vendite discografiche.
Philips propone nel 1963 il primo magnetofono a cassette, e già l'anno successivo iniziano a circolare le cassette commerciali. Da non dimenticare è la doppia natura della cassetta: la sua semplicità di impiego quale mezzo di registrazione e soprattutto il suo basso costo ne hanno favorito la diffusione in tutto il mondo.
L'ultima grande rivoluzione in campo discografico, quella del digitale, è datata anno 1982.
In quell'anno Philips lancia sul mercato il compact disc (CD), un supporto che per solidità, comodità di impiego e purezza di suono garantita nel tempo sancirà, perlomeno in occidente, il tracollo delle vendite dei supporti tradizionali.
Negli ultimi anni, ha conosciuto una forte espansione la versione registrabile del CD, il cosiddetto CD-R ed è recente l'inizio della produzione su larga scala di DVD, dischi ottici di notevole capacità utilizzati prevalentemente per la memorizzazione e riproduzione di filmati.


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STORIA DELLA CANZONE ITALIANA Empty DEFINIZIONI E ORIGINI

Messaggio  admin_italiacanora Mer Mag 09, 2018 3:42 pm

1. DEFINIZIONI E ORIGINI
 
 
C’ è stato un tempo in cui la canzone aveva poco a che fare con la musica; i suoi riferimenti stilistici e formali più immediati erano quelli della poesia e del verso cantato, così per lungo tempo è stata considerata a tutti gli effetti un componimento poetico, in qualche caso addolcito da un accompagnamento musicale.

Solo in epoca relativamente moderna si è cominciato a considerare la canzone una composizione di struttura strofica, cioè organizzata per strofe, in genere intonata dal canto o talvolta anche solo strumentale.
Tale definizione riporta agli elementi essenziali di questa forma compositiva e può rivelarsi preziosa base di partenza per analizzarne corpo ed evoluzione, proprio a partire dalla lettura dei momenti che via via hanno contribuito a costruirne e a influenzarne la struttura portante, sia quelli che provengono dalla tradizione italiana, come il folk o il melodramma, sia altri derivati dal pop britannico o americano.

Proprio sulla base di queste influenze la canzone è venuta costruendosi come un genere musicale costituito da un «insieme di fatti musicali, reali e possibili, il cui svolgimento è governato da un insieme definito di norme socialmente accettate», senza escludere che un genere musicale possa essere vicino a uno stile riconoscibile anche se «è nel senso comune (del pubblico, dei musicisti, dei discografici, di una vasta collettività) che queste unità culturali vengono chiamate “generi” e non “stili”».
Non si deve poi escludere che i generi della musica popolare, folk e colta possano essere «raggruppati in insiemi più grandi che invece chiamiamo “musiche” (la musica popular, la musica folk, la musica colta), ed è possibile che i loro metalinguaggi abbiano qualcosa in comune».

Gli antenati della canzone
Fra i primi a proporre un’osservazione ragionata sulla canzone è Dante Alighieri (1265-1321), che di essa offre una sintetica e illuminante definizione nel De vulgari eloquentia: «Un’opera compiuta di chi compone parole in armonia tra loro in vista di una modulazione musicale»; è una definizione ricca di intuizioni, se si considera che proviene da un non musicista in un’epoca dove si era ancora ben lontani dai concetti di armonia, modulazione e composizione, e che ancora oggi nelle enciclopedie della musica la canzone viene così definita: «Composizione di struttura strofica, che per lo più è intonata dal canto, ma può essere anche esclusivamente strumentale».
Soltanto con la forte influenza sulla struttura musicale della canzone di nuove “grammatiche” musicali, rock e blues in modo particolare, si è assistito a una sua decisa trasformazione sul piano formale e strutturale.

Per ciò che riguarda l’origine della canzone italiana si possono individuare alcune linee principali:
  • una prima direzione che prende consistenza dall’evoluzione di alcune forme compositive nate in epoca medievale e poi confluite nella musica colta e nel melodramma;
  • una seconda linea che prende vita dall’evoluzione di consolidate formule della tradizione francese;
  • infine una terza che affonda le radici nella musica e nelle forme canore di origine tradizionale, soprattutto di area partenopea.

A queste tre fonti principali deve essere in tempi successivi aggiunta quella del suono anglosassone nelle sue varie rappresentazioni, rock, jazz, blues, song, ecc., che comincia a influenzare con prepotenza la canzone italiana a partire dagli anni Trenta e si impone in modo particolarmente rilevante dagli anni Sessanta.

È quindi complicato individuare un’origine unica e precisa della canzone italiana, mentre sarebbe più lecito pensare a una forma compositiva nata come risultato dell’evoluzione di stili e componimenti musicali di varia origine.
Ad esempio, non va sottovalutato il peso della cultura tradizionale legata alla trasmissione orale dei messaggi sonori e al ruolo dei primi cantastorie che potevano contare su supporti tecnico-vocali limitati: la loro stessa voce è, tutt’al più, uno strumento d’accompagnamento.

Una semplificazione esecutiva che è rimasta nel tempo una delle ragioni fondamentali del successo popolare della canzone, antica e moderna, tramandata dai trovatori ai cantastorie, fino ai cantautori e rapper moderni.
Una semplificazione che offre un netto elemento di distinzione dalla musica colta che, oltre a contare su un impegno strumentale ben superiore a quello della musica popolare, ha un obbiettivo creativo diverso che punta su forme compositive molto più elaborate.

Tale riflessione sottende anche un altro handicap di cui tener conto quando si cerca di analizzare l’origine della canzone, cioè l’assenza o quasi, nella musica popolare, di un supporto grammaticale rilevante.
Anche se alcuni aspetti della grammatica musicale vengono utilizzati nell’analisi della canzone – come ad esempio gli elementi basilari di altezza, intensità, timbro, intonazione e i concetti di melodia, armonia, modulazione e motivo –, caratteristica di fondo della canzone rimane la sua sostanziale semplicità di forme. Per questa ragione diventa importante studiarne il percorso insieme alla produzione degli autori che più hanno contribuito a costruirne la consistenza stilistica.

Profilo storico
Se è vero che l’evoluzione moderna della canzone parte dal Settecento, bisogna però ricordare che già nel Duecento il termine canzone indica un componimento poetico, la cantio, che trova origine in una sorta di poesia cantata dove la musica diventa strumento di abbellimento.

Una forma di «composizione poetica piuttosto evoluta» praticata anche da «poeti laureati /come/ Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti /in quanto/ raffinati cultori del dolce stil novo, ma anche musicisti e perfino cantanti.
E che… non fosse raro trovarli intenti… a cantare per la delizia del pubblico quelle loro ballatette, piene di “spirti soavi”, di “incantamenti” e di “anime che sospirano”».
Successivamente, soprattutto per opera di alcuni grandi della letteratura come Petrarca, la poesia si stacca dalla voce cui era unita nella tradizione trovadorica, e il termine canzone inizia a indicare una composizione in versi con certe caratteristiche formali, oppure un brano di musica vocale.
Sempre fra Duecento e Trecento è la tradizione trovadorica a fornire un punto di riferimento formale e sociale per la canzone antica; come è noto «i trovatori di Provenza… cantavano le loro poesie, vagando da una corte all’altra. Molti operavano in Italia… tra la fine del dodicesimo e l’inizio del tredicesimo secolo… Se cantavano le loro poesie i maestri provenzali dei nostri poeti, perché l’Italia… avrebbe dovuto sottrarsi al piacere della musica?».
Di fatto, con l’apporto di questo gruppo di autori erranti, la “canzone” si conferma come una forma d’espressione autonoma che ben presto acquisterà alcune caratteristiche tecniche ben precise.

Nella parte di questa ricerca relativa all’origine della tradizione napoletana si vedrà come anche in quel mondo musicale erano presenti già in epoca sveva, e sono poi giunte a noi, numerose “canzoni”.
Si tratta di forme canore che trovano ispirazione nella tradizione popolare ma che vedranno un’ampia diffusione nell’area campana.

A partire dal Cinquecento il termine canzone appare in opposizione a mottetto, sonetto, strambotto, frottola, proponendosi come diretta evoluzione del nascente stile madrigalesco; con il diffondersi di questa forma musicale nella sua accezione di canto polifonico a quattro voci, il termine canzone comincia a distaccarsene per indicare quelle composizioni in cui confluiscono le tendenze rustiche e burlesche non accolte dall’evoluzione del madrigale.

Alla fine del sedicesimo secolo si affaccia per la prima volta il termine canzonetta per intendere forme madrigalesche dai toni gai e giocosi.
Con il passaggio al Seicento la canzone perde poi ogni caratteristica di composizione vocale, per approdare a una forma strumentale derivata dalla pratica di trascrivere per strumenti polifonici la chanson francese.
Successivamente, la canzone offre sempre maggiore spazio alle qualità specifiche degli strumenti fino a configurarsi con parti distinte.
È da quel periodo che comincia ad affermarsi come elemento di continuità della forma canzone una struttura strofica dove sono ben riconoscibili sezioni distinte di testo e musica che si ripetono; per queste ragioni le composizioni sono brevi, con poche decine di strofe dal carattere in genere narrativo-drammatico.

Proprio a partire da queste specificità si possono cominciare a distinguere due tipi di canzone: la ballata, in genere di carattere narrativo in cui il testo si sviluppa in un susseguirsi di strofe musicalmente simili, e la canzone a ritornello, basata invece sull’alternarsi di una parte narrativo-descrittiva e di un’altra più lirico-espressiva nella quale testo e musica si ripetono.

La nascita della canzone “moderna”
La nascita della canzone “moderna” si deve datare intorno al Settecento, quando prende consistenza la pratica di indicare nella canzone una composizione compiuta di testo e musica.

Da questo punto di vista la Francia è considerata la patria di questa idea moderna della canzone, perché già dalla fine del Seicento la vivacità della satira politica aveva agito da stimolo per la produzione di canzoni ed epigrammi che trovarono nella nascita del caffè concerto la sede ideale per la loro diffusione.

Nel 1770 nasce, infatti, a Parigi il Café de musicos dove si comincia a offrire agli avventori uno spettacolo fatto di scenette comico-satiriche e canzoni. In questo locale, e in quelli che poi seguiranno, i diversi autori portano le loro composizioni appartenenti a un repertorio sviluppato nelle prime manifestazioni canore messe in piedi nel corso del secolo, fino a veder realizzata presso la trattoria di Landel, sempre a Parigi, una associazione di categoria, la Société des gens de lettres, con lo scopo di coltivare e sviluppare la canzone.

Nel frattempo, a fianco della tradizionale funzione di intrattenimento su temi amorosi e comici, si afferma quella satirica e politica a commento dei fatti politici e sociali, che già aveva segnato il Settecento francese fino a raggiungere il culmine nel periodo della Rivoluzione. Da questa tradizione prende vita anche il teatro detto vaudeville, da voix de ville, cioè voci della città, che offre grande spazio alla canzone di argomento satirico e sentimentale e di cui Pierre Jean de Beranger (1780-1857) è l’autore più noto.

Contemporaneamente si sviluppa, sempre in Francia, un altro genere canoro di notevole importanza, detto nero o canaille, che celebra gli eroi negativi dei bassifondi urbani e rappresenta l’altra faccia dei lustrini e dello sfarzo della Belle époque. Maggior esponente di questo genere è Aristide Bruant, autore di decine di personaggi e profili umani, poi più volte imitati, che avrà i suoi prosecutori in Mayol, Dranem e Guilbert.
 
Fonte :


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Messaggio  admin_italiacanora Mar Ott 08, 2019 10:41 pm

2. DALLA ROMANZA ALLA CANZONE
 
 
Terreno fondamentale per la costruzione di una stilizzazione moderna della canzone italiana è stato il melodramma, soprattutto attraverso la romanza, sia nella sua veste più classica proveniente dall’opera lirica, come pure in quella di componimento musicale a sé stante, anche se modellato sullo stile delle romanze di origine colta.
Questo passaggio è molto importante per capire il delinearsi dello stile della canzone, perché gli autori che hanno lavorato nella zona di confine fra melodramma e canzone, come Tosti, Tirindelli, Costa, Leoncavallo, De Leva, Denza, hanno introdotto nella romanza quegli elementi provenienti dal mondo della lirica, che poi sono diventati tipici della tradizione canora italiana moderna.
Questi stessi elementi finiranno con il caratterizzare anche il canto melodico, che non a caso verrà definito “all’italiana”, dei vari Buti, Villa, Carboni (Oscar).
Quasi contemporaneamente alla nascita della romanza, e all’emergere delle prime forme di stilizzazione della canzone napoletana, prende piede in vari paesi europei l’idea di realizzare accanto all’opera lirica «uno spettacolo musicale che fosse gradito a un pubblico più vasto.
A Parigi nasce, l’Opéra-comique, a Londra la Ballad Opera, in Germania il Singspiel», un genere influenzato dalla musica colta come da quella di tradizione popolare.

«A Napoli, nel primo decennio del Settecento nasce l’Opera Buffa, che era scritta in dialetto e portava sulla scena personaggi e situazioni della vita quotidiana; molti librettisti erano anche autori di commedie e canzoni dialettali e i compositori… erano stati allievi dei conservatori partenopei.
Tra Opera Buffa e canzone napoletana si istituì un proficuo interscambio tanto che, spesso, gli interpreti delle opere strappavano l’applauso in teatro eseguendo, tra un atto e l’altro o al termine dello spettacolo, qualche canzone popolare, mentre il popolo faceva sue le loro arie, cantandole per le strade, come canzoni.
Fra i maggiori protagonisti di questa stagione dell’Opera Buffa sono Giovanni Battista Pergolesi, Francesco Ciarlone, Leonardo Vinci, Aniello Piscopo, Costantino Ruberti, Gennaro Antonio Federico, in parte lo stesso Giovanni Paisiello.
Successivamente e, soprattutto, a partire dal periodo fra il Settecento e l’Ottocento, in modo particolare a Napoli e nelle città con corti gentilizie, iniziano a moltiplicarsi le occasioni di piccoli concerti, cosiddetti da “salotto”, dove i cantanti lirici propongono la loro interpretazione di romanze tratte dal repertorio della musica classica oppure buffa insieme alle nuove canzoni “d’autore”.

È un momento decisivo in cui comincia a prendere forma un’idea nuova di canzone.

Ma non è solo l’utilizzo di arie d’opera molto popolari a influenzare il modo di scrivere canzoni, sono gli stessi musicisti colti ad avvicinarsi al mondo della canzone; Donizetti, al quale qualcuno attribuisce la paternità musicale di "Te voglio bene assaje", una delle canzoni più conosciute del repertorio napoletano, pubblica, durante il periodo trascorso a Napoli fra il 1822 e il 1838, ben cinque raccolte di canzoni (Collezione di canzonette, Donizetti da camera, Raccolta di ariette e duettini e altre due raccolte in francese) fra cui figurano le famose La conocchia e Amor marinaro ma non Te voglio bene assaje:

      
 
 
Un impegno su cui è lo stesso Donizetti a fornire una esplicita dichiarazione: «Dovrei fare dodici canzonette, al solito, per pigliarmi 20 ducati l’una, che in altri tempi lo facevo mentre il riso cuoceva. Ora la penna mi cade, non so far nulla, ma devo far tutto, che tutto è promesso».
Ma Donizetti non è l’unico grande musicista a offrire materiali così vicini a un’idea di canzone moderna; basta pensare ad alcune famose composizioni di Rossini, Bellini, Leoncavallo, Mercadante, Ponchielli; ricordiamo la famosa tarantella di Rossini (nota come Già la luna è in mezzo al mare), l’aria Vi ravviso, o luoghi ameni da La sonnambula di Bellini, Mattinata di Leoncavallo.

      
 
 
Tali melodie tornano anche attraverso citazioni più o meno esplicite di altri autori come in Fenesta ca lucive, che nella seconda parte richiama il finale della già citata La sonnambula belliniana.
A questa opera di scambio contribuiscono in modo decisivo interpreti del melodramma come Enrico Caruso e Francesco Tamagno che, grazie alla loro enorme fama, lanciano nel mondo il repertorio dell’operacanzone, che mette insieme arie d’opera, romanze e canzoni napoletane.
Questo connubio consente un’ampia diffusione del repertorio della melodia italiana e accomuna strettamente le grandi melodie di Puccini e di Di Giacomo con quelle di Tosti e di De Leva, anche perché mette insieme pubblici diversi, quello della nuova borghesia con quello della nobiltà delle corti italiane.
A questi si aggiungerà ben presto “all’esterno dei salotti” anche il popolino borghese e proletario, entusiasta di patetismi e acuti presenti nello stile delle romanze.
Infatti nel momento del suo massimo sviluppo, a fine Ottocento, questo genere si proporrà proprio come approdo del bel canto italiano, dove il fraseggio melodrammatico diventerà padrone della scena fino a concedere ampio spazio alle estremizzazioni dei virtuosismi vocali; parallelamente continua a maturare il percorso sonoro che trova origine nella tradizione orale e ha contribuito all’opera di stilizzazione formale della canzone.
Su questo terreno, dove la canzone antica è stata sottoposta a un profondo processo di modificazione, bisogna distinguere fra la canzone napoletana d’autore e il canto di tradizione orale, che invece si è sviluppato all’interno di ambienti popolari e contadini.

Storicamente per canzone di tradizione popolare si intende quella che ha dato vita a forme, stili e creazioni attraverso la pratica quotidiana dello scambio orale, dove testo e melodia sono spesso inscindibili perché in questo contesto non si «canta per creare poesia, ma si crea della poesia per cantare».
Successivamente gli autori riusciranno a rendere unitario lo stile della canzone, mettendo insieme temi proposti dalla memoria colta con gli elementi originati dalla tradizione.
Molto importante da questo punto di vista è il lavoro di stilizzazione operata dagli autori che, rielaborando generi e stili di diversa provenienza, hanno traghettato la romanza verso la canzone moderna.
Fra questi vanno ricordati Guillaume e Teodoro Cottrau e i citati Luigi Denza, Enrico De Leva e Francesco Paolo Tosti; anzi sulla questione che propone il passaggio dalla romanza alla canzone moderna merita un’attenzione particolare il lavoro della famiglia Cottrau e di Francesco Paolo Tosti.

Se la famiglia francese, poi stabilitasi a Napoli, ha concentrato il proprio impegno sul rapporto fra tradizione antica e canzone napoletana, su un versante più prossimo alla musica colta si è al contrario mosso Francesco Paolo Tosti (Ortona 1846-Roma 1916).
Dopo aver studiato al Conservatorio di Napoli, alterna l’attività di concertista e compositore a quella di autore di canzoni di cui è stato un prolifico produttore, soprattutto con uno stile melodico e sentimentale.
La sua popolarità diventa particolarmente rilevante come compositore di romanze da salotto, un genere che nel suo caso riecheggia la romanza dell’opera lirica pur mantenendo nello stesso tempo forti elementi di passionalità emotiva provenienti dal repertorio popolare.
A tal proposito basta ricordare alcune sue note melodie, come Luna d’estate, L’ultima canzone, Ideale, Non t’amo più, Mattinata, Serenata.

      
 
 
Oltre che per l’attività di autore Tosti si segnala per l’impegno nella ricerca della musica tradizionale, anche se terreno centrale della sua esperienza rimane aver saputo far convivere e fondere musica colta con il suono della tradizione, imprimendo una svolta creativa al percorso della canzone italiana.
Particolarmente fertile è il sodalizio con il poeta napoletano Salvatore Di Giacomo che ha portato alla composizione di numerose, e in qualche caso famosissime, canzoni e romanze, fra le quali: Tutto se scorda, Comme va, Napule, Serenata allegra e, soprattutto, Marechiare del 1885.

      
 
 
La vicenda che ha portato alla nascita di questo brano celeberrimo merita di essere ricordata perché, a dispetto della sua enorme popolarità, sembra che non fosse molto amata dall’autore del testo, Salvatore Di Giacomo, che considerava le immagini descritte dalla canzone eccessivamente melense fino a non volerla includere in una delle sue prime raccolte di poesie.
Viceversa questo brano viene da tutti considerato di raffinatissima eleganza, grazie a quell’alternanza fra il veemente, drammatico, attacco e la struggente serenata con cui Tosti seppe musicare il brano, e ha conosciuto una straordinaria celebrità in tutto il mondo proprio grazie alla sua intensità melodica.
Marechiare non è l’unico classico napoletano firmato da Tosti che qualche anno dopo, nel 1904, compone ‘A vucchella su un testo che Gabriele D’Annunzio aveva scritto già nel 1892.
Anche con il grande artista abruzzese Tosti aveva instaurato una solida amicizia animata da una forte passione per la musica e dalla comune origine geografica, amicizia che, oltre alla citata ‘A vucchella, ha prodotto due piccoli notturni: O falce di luna calante e Quattro canzoni d’amaranta:

   
 
 
Questa produzione imprime un impulso importante all’evoluzione di un’idea moderna di canzone che avrà di lì a poco un ulteriore sviluppo, quando le “romanze da salotto” per diventare più fruibili cominceranno a essere eseguite per mandolino e voce negli spazi pubblici più diversi: locali, piazze, luoghi di ritrovo.
È un passaggio centrale per la “volgarizzazione” di un genere che invece era stato per lungo tempo patrimonio di alcune élite della società italiana.

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L’altro momento decisivo per questa opera di stilizzazione avviene sempre negli ultimi decenni dell’Ottocento grazie alla canzone sviluppatasi nei caffè concerto, prima in Francia e successivamente anche in Italia, dove in quasi tutte le grandi città vengono aperti con grande successo i locali del café-chantant.

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Citiamo il Gambrinus, famoso caffè-birreria dove si ritrova il bel mondo artistico e mondano dell’epoca, e il Trianon dove, fra i tavolini e lo champagne, le nuove stelle della canzone (Lina Cavalieri, Yvon de Flourier, Cléo de Merode, la Bella Otero) cominciano a rendere immortali le composizioni dei vari Tosti, Di Giacomo, Costa, ecc.
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STORIA DELLA CANZONE ITALIANA Empty CANTI TRADIZIONALI, SOCIALI e PATRIOTTICI

Messaggio  admin_italiacanora Lun Nov 04, 2019 11:12 am

3. CANTI TRADIZIONALI, SOCIALI e PATRIOTTICI
 
 
Fin dal Medio Evo, e con particolare evidenza nel periodo della costruzione della “nazione Italia”, 1850-1945, il repertorio dei canti sociali, politici e patriottici ha avuto un ruolo che va oltre il terreno di puro consumo musicale, coinvolgendo il pubblico anche su un piano psicologico e politico-culturale più ampio.

Trattandosi di canti composti da autori spesso legati all’ambiente politico-sociale più popolare e talvolta alla tradizione orale, è difficile indicare con precisione quando si sia avviata questa produzione.
Michele Straniero ha indicato un punto di partenza quando: «termina /la canzone/ latina o basso-latina»; un esempio di questo passaggio è il canto La pastora e il lupo, che risale, almeno per il testo, a una delle canzoni latine dei Carmina Burana di epoca medievale.
«La canzone popolare italiana, infatti, si forma e si trasforma in quel crogiuolo di umori, di suoni e di culture che fu il tardo Medio Evo, attraverso la dialettica della festa religiosa o profana, allo stesso modo e nello stesso tempo in cui si forma il dramma popolare, vale a dire quel nucleo di teatro da strada o da piazza dal quale nasceranno tanto le sacre rappresentazioni quanto le parodistiche processioni carnevalesche».

Sono stati Giosuè Carducci e Alessandro D’Ancona a sostenere che la poesia popolare sia parte integrante della letteratura nazionale e trovi origine anche nell’arte letteraria.
Per questo all’inizio della nostra letteratura scritta troviamo anche un’ampia fioritura di poesie e canzoni di tradizione popolare: frottole, strambotti, canzoni e laudi, serenate e mottetti, proposti nella più ampia varietà di ritmi e metri su temi che vanno dalla cronaca all’amore, dal guerresco al patetico.
È stato lo studioso di tradizioni popolari, Giuseppe Pitré a scrivere che gli autori dei canti, in genere gente molto umile, componevano i brani alla fine del lavoro durante le ore di riposo.
Quando si prende in considerazione questa produzione è importante prestare attenzione a come avviene la trasmissione dei canti: per imitazione attraverso la comunicazione orale o creazione collettiva quando un brano si trasforma in una composizione di patrimonio collettivo.
Come pure si deve tenere conto che la musica di origine tradizionale appartiene non a un autore preciso, bensì al gruppo sociale che la conserva e la riproduce per mezzo della memoria viva delle persone.
Essa è tramandata ai membri più giovani del gruppo attraverso la pratica diretta e non attraverso scuole e libri; le varianti sono talmente numerose che non esiste una versione “originale” distinta dalle sue varianti…
Infine, la musica popolare è sempre legata a uno scopo condiviso con tutta la collettività; ogni canzone esiste per essere eseguita in funzione di una determinata occasione sociale.
Questa idea è rafforzata dalle riflessioni di Roberto De Simone quando sostiene che i canti tradizionali devono essere raccolti non come incomprensibili pezzi di culture passate, ma come frutti di una cultura ancora viva senza uscire dalla loro funzionalità e da una lingua da articolare di «volta in volta e da comporre sempre in maniera nuova».
La riflessione sull’evolversi dei canti popolari italiani deve tenere conto anche degli studi sul folklore che hanno considerato la dimensione creativa tradizionale totalmente autonoma rispetto a quella della produzione d’autore.
Da questo punto di vista l’Ottocento diventa il periodo fondamentale per la diffusione dei canti patriottici.
Anche perché in questo periodo maturano i lavori degli studiosi del folklore, sia di quelli che limitano il loro intervento alla ricerca, sia di coloro, come Costantino Nigra (1828-1907) che intendono riannodare i fili con la tradizione popolare e perpetuarne la diffusione.

Come già ricordato l’altra figura dominante le ricerche sulla musica tradizionale italiana è quella di Giuseppe Pitré (1841-1916), ricercatore e maestro indiscusso del folklore nel nostro paese.
Dopo aver realizzato la Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, ha messo in piedi, insieme a Salomone Marino, la pubblicazione periodica "Archivio per lo studio delle tradizioni popolari" che è rapidamente diventata punto di riferimento per studiosi e ricercatori.
Con Pitré la materia folklorica acquisisce finalmente una dimensione storica.
Sulla sua scia si muovono tanti ricercatori, come Ungarelli, Pergoli, Rondini, Congedo, Caliari, Novati, che mettono le basi della etnomusicologia su cui lavorano a cavallo del secolo Giulio Fara (1880-1949) e Alberto Favara (1863-1923); Fara, in particolare, muove nuovi passi nello studio del folklore musicale.
Proprio alle sue ricerche si deve una suddivisione dell’Italia secondo un’idea del canto popolare come forma cantata.
Secondo questo punto di vista esisterebbero due zone: l’alpina, che comprende il nord, e l’italica, che abbraccia il centrosud.
Nella prima dominerebbero i canti narrativi dei celti, nella seconda il canto lirico, esteso però a tutta l’area mediterranea.
La distinzione ricorda quella fra canzone napoletana, del centro-sud, dominata dal canto estatico, e canzone del nord, invece originata dal canto gregoriano.

Dopo gli studi di Pitré, di Fara e di Favara la ricerca sulla musica tradizionale ha avuto una battuta d’arresto quando «l’egemonia crociana e il regime fascista incrinarono, a partire dagli anni Venti, il buon rapporto fra gli studi accademici e le tradizioni popolari» e iniziarono a dominare la scena culturale italiana.
Se, infatti, il fascismo favoriva l’interpretazione del repertorio folklorico come grande testimonianza della nostra cultura nazionale in contrapposizione con le altre, il crocianesimo tendeva invece a considerare la cultura tradizionale con un giudizio di inferiorità rispetto alla cosiddetta arte colta superiore.
A parte il lavoro di Michele Barbi (1867-1941), Francesco Pratella (1880-1955) e Paolo Toschi, bisogna arrivare alle osservazioni sul folklore di Antonio Gramsci per assistere a un rilancio nelle ricerche sul patrimonio della musica tradizionale.

Nel 1948, lo stesso anno della pubblicazione dei Quaderni del carcere di Gramsci, viene fondato a Roma, da Giorgio Nataletti (1907-1972), il Centro nazionale per gli studi di musica popolare, che diventa un punto di riferimento per le ricerche sul folklore.
L’anno dopo Ernesto De Martino (1908-1965) sviluppa le osservazioni di Gramsci con la formulazione del concetto di “folklore progressivo”, che rilancia il patrimonio tradizionale alla luce di una nuova creatività cosciente e civile.
L’opera di De Martino troverà ampio sviluppo nel successivo lavoro di Gianni Bosio e del Nuovo Canzoniere Italiano, premessa della grande stagione del folk-revival di cui saranno protagoniste le ricerche di Roberto De Simone con la Nuova Compagnia di Canto Popolare.


I CANTI DELLA TRADIZIONE REGIONALE

In Campania si tramanda una bella e inquietante leggenda circa l’origine delle canzoni popolari.
La ricorda… Roberto De Simone:
“L’autore d’ ‘a ccanzone è Cunpido, puveta (poeta) e cantatore da ‘nu munno ‘e secule fa. Ce steva ‘na vota ‘o libbero de ‘sti ccanzone, ma quase tutte però l’ammo ‘mparate a sentirle di’ da l’àutre. Cunpido èva napuletano… mo sta a Casudiàvolo anema e cuorpo… si cantano di vendemmie, facendo le terrazze, zappando, portando serenate, trasportando il vino, andando appresso al ciuco, vogando, ecc.”».
Se le tradizioni canore romana e napoletana propongono uno sterminato repertorio costituito da canti di varia provenienza storica e eografica, anche le altre regioni italiane presentano un ricco “catalogo” di canti e ballate sviluppatisi secondo quella distinzione proposta all’avvio di questo capitolo dedicato ai canti popolari: il nord Italia, più legato alle radici celtiche, presenta per lo più canzoni narrative, mentre il sud è legato al canto creativo e d’amore in cui lo sviluppo della forma ha un peso centrale.
Queste sono comunque indicazioni di massima, suscettibili di ampie eccezioni, per influenza della musica da ballo o delle culture etniche locali che propongono repertori specifici legati a tradizioni extra-nazionali.

In Piemonte, ad esempio, la cultura del lavoro influenza i canti narrativi, fra cui La monferrina, da sempre uno dei più popolari, e nelle zone di confine occitane e valdostane sono presenti tradizioni diverse con profonde influenze – la lingua prima di tutto – che provengono d’oltralpe: fra i titoli, Montanaro emigrato, Bella rosa, Pastora fedele, Mugnaio.
 
 
Esiste poi un’ampia produzione di canzoni più tipicamente torinesi, d’autore e non, legate soprattutto a piccoli episodi o personaggi cittadini; ecco alcuni titoli: Primavera a Türin, ‘N barca ‘n sel Po, Marieme veui Marieme, ‘L bel alpin, Totina, ecc.
 

Sempre a proposito di eccezioni dalle linee generali, la Liguria, soprattutto a Genova, propone la tradizione vocale del trallallero, «stile di canto a più voci, dove queste voci umane si fanno strumento, organo, corale, tessitura finissima di colori e suoni/un canto in cui/il testo è più che altro un pretesto, un vago suggerimento tematico».

Oscure le origini di questo canto polivocale, anche se gli studiosi sono propensi a credere che sia nato in mare, sulle navi, dove era complicato portarsi strumenti e per fare musica si doveva ricorrere alla voce.
È una tradizione lontana, ma rivivificata negli anni Novanta di questo secolo quando i gruppi genovesi delle Voci Atroci e Sensasciou ne hanno utilizzato la tecnica in un contesto pop.

Una delle regioni più ricche di canti popolari è la Lombardia, sia nel repertorio di quelli tipicamente milanesi sia nelle canzoni di origine contadina.
Fra queste ultime la regina fra tutte le ballate epico-liriche, non solo milanesi ma di tutta l’Italia settentrionale, è Donna Lombarda, di cui Costantino Nigra, grande studioso del folklore italiano, elenca ben sedici versioni.
 
Antica ballata, che la tradizione popolare fa risalire all'epoca longobarda, tramandata fino ai giorni nostri attraverso un'infinitàdi varianti regionali.
Narra la storia di una giovane sposa istigata dall'amante ad avvelenare il marito e di un neonato che miracolosamente comincia a parlare; lo stereotipo della donna infedele ed ingannatrice era piuttosto diffuso negli oscuri secoli medioevali, il tetro e cadenzato accompagnamento della musica testimonia fedelmente l'impronta originale del canto.
Con un po' di fantasia il biografo lo immagina sulla bocca di un trovatore alla corte dei Malaspina nel castello di Oramala, nell'alto Oltrepò Pavese, dove a quel tempo erano soliti convenire artisti,cantastorie e menestrelli da ogni parte d'Europa.

 
 
Poi va ricordato il lungo elenco di canzoni del famoso Barbapedanna, personaggio leggendario della tradizione lombarda che avrebbe tramandato – fin dal Seicento secondo Alessandro Visconti – i canti legati soprattutto alla tradizione contadina, fra cui El piscinin, la Marianna la va in campagna, Crapa pelada (poi rielaborata da Gorni Kramer), El risott.

      
 
 
Ma la quantità di canti è enorme e, come è accaduto a Napoli e a Roma con le raccolte di Roberto Murolo e Sergio Centi, Nanni Svampa, musicista, ricercatore, nonché membro del gruppo dei Gufi, ha raccolto un gran numero di canti lombardi e milanesi in una antologia di dodici lp.
Discorso a parte merita il grande repertorio dialettale d’autore sviluppato con le composizioni di artisti di diversa estrazione come Giovanni D’Anzi – celeberrime le sue Madunina e Nostalgia de Milan –, i Gufi, Fiorenzo Carpi e Dario Fo, che hanno dato vita in modi diversi a una vera e propria rifondazione della canzone milanese.

Nelle tre Venezie e in Friuli la canzone dialettale prende la forma di «strambotto, che qui è detto villotta, lirico, monostrofico e amoroso», un componimento musicale utilizzato soprattutto per narrare storie di argomento amoroso e legate alla vita quotidiana.
Fra quelle veneziane d’autore citiamo El gondolier, Do cori ‘na gondoa, Dove ti va Nineta, Soto el ponte de’ l’abacia.

   
 
 
Nel Friuli, per motivi storici e geografici, è anche presente l’influenza del canto tedesco e sloveno, che ha risentito fortemente della musica religiosa.
Fra i canti popolari dell’Emilia Romagna molti sono dedicati al lavoro e legati allo sviluppo economico padano: famosissimo a questo proposito è Gli scariolanti, che ricorda il lavoro di bonifica della zona del ferrarese realizzato intorno al 1880.

La Romagna, poi, oltre all’enorme patrimonio di musica da ballo conosciuta sotto il termine di “liscio”, ha sviluppato anche un autonomo repertorio di canti politici e anarchici.
In genere tutta l’area padana ha visto crescere un catalogo di canti di contadini e di protesta animato da interpreti in molti casi diventati poi protagonisti del folk-revival degli anni Sessanta: fra questi, Giovanna Daffini, straordinaria interprete della canzone politica e dei canti di lavoro delle mondine (L’amarezza delle mondine, Sciur padrun da li beli braghi bianchi, Amore mio non piangere) e il Duo di Piadena (L’uva fogarina, La santa Caterina dei pastai, ecc.).

      

      
 
 
La Toscana rientra nella zona dello stornello, talvolta denominato “rispetto”, una forma canora utilizzata soprattutto nelle zone contadine ed extraurbane.
Ma non mancano ballate, ninne-nanne, canti del Maggio – conosciuti a livello nazionale per merito del lavoro di recupero di Caterina Bueno e Dodi Moscati – ma anche canti in ottava rima, antichissima tecnica di canto presente in tutta l’Italia centro-meridionale.

      
 
 
Livorno, Pisa, Siena, Firenze vantano una specifica tradizione di canti urbani dedicati alle vicende locali e ai personaggi tipici dei luoghi, narrati con la proverbiale ironia toscana.
Anche a Firenze esiste come per Milano, Torino, Venezia, Trieste, un repertorio tradizionale e d’autore di canzoni dialettali immortalate dalle amatissime voci di Odoardo Spadaro e Carlo Buti.

      
 
 
Nella zona dell’Amiata e del grossetano si pratica un canto simile al trallallero ligure, qui denominato “il bei”.
In Umbria si utilizza lo stornello, che nel vicino Abruzzo diventa “canzune”, mentre i canti di dispetto sono denominati “canzune suspette” e quello d’origine religiosa “canzungina”.
Nel vicino Molise ancora lo stornello e anche le ballate, fra cui va ricordata Tutte le funtanelle e la celebre, ma d’autore, Vola vola vola (di Dommarco e Albanese).
Per completare il discorso su quest’area geografica bisogna ricordare che in alcune zone di Umbria, Marche e Abruzzo è ancora vivo il canto a “vatoccu”, probabile eredità di uno stile polivocale presente nell’area in epoca antica.
 
      
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STORIA DELLA CANZONE ITALIANA Empty LA CANZONE ROMANA

Messaggio  admin_italiacanora Sab Apr 04, 2020 7:53 pm

LA CANZONE ROMANA
 
 
Un discorso a parte merita la storia della canzone romana che per tradizione e ricchezza creativa può competere con le altre grandi tradizioni regionali napoletana e lombarda.
La canzone detta romanesca affonda, infatti, le radici in una tradizione che risale al tredicesimo secolo e ha prodotto un vastissimo repertorio di canzoni.
L’elemento formale che ha unificato questo lungo cammino è l’esecuzione dei canti nella forma del sonetto; sotto questo nome gli autori della tradizione romana hanno posto lo stornello e l’ottava, che erano invece le forme principali del folklore musicale di Roma e del centro Italia.
La particolarità del repertorio romanesco è che si è mantenuto per tutta la sua storia sostanzialmente fedele a questa forma canora e nei contenuti è stato sempre caratterizzato da una spiccata funzionalità verso l’intrattenimento.
Tale caratteristica è stata sottolineata anche da Pier Paolo Pasolini che così ha scritto a proposito della canzone romana: «È un canto della domenica sera o della festa de noantri… idoneo sfogo alla carica narcisistica nei gorgheggi della melodia».

Due grandi periodi caratterizzano la storia della canzone romana: quello che va dalle origini (intorno al tredicesimo secolo) fino al 1890, quando, per ricordare il ventennale della presa di Roma, viene bandito un concorso di bellezza fra le giovani romane per il quale sono composte anche alcune canzoni, e un secondo periodo che prende il via proprio dalle canzoni lanciate in quel concorso per arrivare ai giorni nostri.
Fra i titoli più popolari della tradizione antica vanno ricordati: Alla Renella (del diciottesimo secolo), più conosciuta
con il titolo di Come te posso ama’, poi La finta monachella (diciassettesimo secolo) e Partenza amara (meglio nota con il titolo Partire partirò, partir bisogna, del diciannovesimo secolo), che però hanno conosciuto versioni diverse anche in altri dialetti.

      
 
 
Il noto poeta romano Gigi Zanazzo viene considerato il padre della canzone romana moderna per aver scritto i versi di numerose canzoni, fra cui Feste di maggio, musicata da Antonio Cosattini proprio in occasione del ventennale dalla liberazione di Roma.
Sempre in quell’occasione, quasi a ricercare una marcata discendenza poetica della canzone romana, Alessandro Parisotti mette in musica La serenata, un sonetto scritto cinquant’anni prima da Giuseppe Gioachino Belli.
Il testo di Zanazzo provoca positive reazioni fra editori e musicisti che l’anno dopo decidono di lanciare il primo concorso di canzoni romanesche.
L’iniziativa si concretizza per opera dell’editore piemontese Edoardo Perino che indice un concorso di canzoni romanesche da tenersi annualmente in occasione della festa di San Giovanni, cioè in conclusione di una manifestazione religiosa simile nei riti a quella napoletana di Piedigrotta.

I luoghi di questa festa-concorso, che si protrarrà fino al 1955, sono le osterie dove ci si può fermare per bere e intrattenere il pubblico; in quella prima storica edizione lo spazio prescelto è la famosa osteria di Facciafresca, al bivio fra la via Appia e la Tuscolana, che però si rivela troppo angusta per contenere tutto il pubblico entusiasta.
Spostatasi alla Galleria Regina Margherita, la manifestazione decreta la vittoria di Le Streghe, versi di Nino Ilari musicati da Alipio Calzelli, un successo legittimato anche dall’interpretazione vigorosa dell’esordiente Leopoldo Fregoli.
Da quel momento il festival lancerà numerosissimi motivi che entreranno nel cuore dei romani e dei milioni di turisti che continueranno a frequentare le osterie della capitale.

Fra i titoli più noti bisogna ricordare Affaccete Nunziata di Antonio Guida e Nino Ilari, lanciata nell’edizione del 1893 è diventata ben presto uno dei cavalli di battaglia di Petrolini, anche se non è solo lui a inserire nel suo repertorio canzoni romane; numerosi divi del café-chantant le utilizzano con buoni risultati, fra questi Lina Cavalieri, che proprio con le “canzonette romanesche” comincia a farsi le ossa prima di diventare una diva internazionale, con la nomea di “donna più bella del mondo”.

Anche nel periodo fra le due guerre mondiali emergono altre canzoni di grande valore, come L’eco der core di Oberdan Petrini e, soprattutto, Barcarolo romano che segna l’affermazione di Romolo Balzani (1892-1962), un cantante, chitarrista e compositore che si rivelerà l’artista di maggior profilo della canzone romana.
Balzani aveva debuttato alla Sala Umberto di Roma negli anni Venti con Enzo Fusco e Odoardo Spadaro, per poi alternare l’attività di autore di canzoni a quella di attore di varietà.
Nel 1926 compone alcuni dei suoi capolavori, come Barcarolo romano, Canzone che canzona, L’eco der core, che lo consacrano padre della canzone romana moderna.

      
 
 
Le sue compagnie, in cui compaiono nomi importanti come Alfredo Bambi, Gabrè, Zara Prima, Reginella (moglie di Aldo Fabrizi) si esibiscono in tutti i maggiori teatri italiani, e Balzani raggiunge una tale popolarità da venir chiamato dall’EIAR per prestare la voce alle prime trasmissioni della radio.
Attore con Visconti e Bolognini, è stato autore di spettacoli, documentari ma soprattutto di canzoni fra cui, oltre alle già citate, bisogna ricordare: Pupetta, L’omo in pericolo, Serenata sincera, Pe’ lungotevere, Stornellata romana:
 
      

   
 
 
Il suo importante lavoro ha contribuito in modo decisivo a costruire un repertorio stabile per la canzone romana e a nobilitarne, sul piano dello stile, forme e melodie, talvolta involgarite dal romanesco più popolare.
La festa di San Giovanni è stato il palcoscenico che ha dato un po’ di gloria anche a un mitico “posteggiatore” come Alfredo Del Pelo, che con il suo quartetto si esibiva in modo stabile nel famoso ristorante romano Taberna Ulpia.
Solo dopo tanti anni di gavetta nei locali, nel 1931, la sua Casetta de Trastevere – insieme a Barcarolo romano la canzone più amata del repertorio romano – gli porta grandissima fama, anche perché interpreta idealmente il legame indissolubile dei romani nei confronti della loro terra.
Abile esecutore e orchestratore, Del Pelo ha scritto numerose canzoni, caratterizzate da una immediata cantabilità; fra queste Fiori romani, Stornelli romani, Trastevere, Roma nostra; molte altre composizioni di altri autori, che Del Pelo ha eseguito, vengono considerate parte del suo repertorio visto il forte lavoro di rielaborazione a cui le ha sottoposte:
 
   

Dopo un iniziale disinteresse, Carlo Buti la presenta durante un’esibizione al teatro Capranica, trasformandola rapidamente in un enorme successo popolare.

Sempre nel genere epico Micheli firma, poco dopo, Moretta d’Adua (musica di Ennio Cannio) e Serenata bersagliera (musica di Mario Ruccione).
Nella seconda metà degli anni Trenta ritorna alla canzone romana con La Madonna dell’Urione e Madonna dell’Angeli a cui fanno seguito Carrettiere romano e, soprattutto, La romanina, su musica di Eldo Di Lazzaro (Trapani 1912-Rapallo 1970), un autore non romano che però può essere considerato facente parte dei compositori in romanesco, vista la sua produzione di canzoni, tra cui le celebri Chitarra romana, La romanina e la stessa Reginella campagnola, molto vicine allo spirito popolaresco, che da sempre la canzone romana ha tratto dal folklore locale:

      

Tornando a Micheli, dopo un lungo periodo dedicato all’organizzazione di rassegne e iniziative, nel 1955 pubblica La storia
della canzone romana in quattro volumi, primo documento dettagliato sulla cultura musicale del popolo romano, opera che undici anni dopo viene riproposta in versione musicale su dodici album interpretati da Sergio Centi.
Qualche anno dopo allestisce un’antologia discografica del folklore romano e mette in musica un nutrito gruppo di sonetti di
Trilussa.
Gli ultimi anni della vita lo vedono ancora impegnato nell’organizzazione di manifestazioni e concerti per ricordare e difendere la canzone romana, un’attività instancabile che nel 1966 viene premiata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri con il
Premio alla cultura.
L’opera di Micheli ha lasciato un segno profondo su autori ed esecutori della canzone romana, in modo particolare su quel periodo che separa la tradizione antica, dove esisteva uno stretto rapporto fra esecutori, posteggiatori e luoghi di ritrovo, e quella più moderna in cui hanno il sopravvento gli autori.
Uscita proprio allo scoppio del secondo conflitto mondiale, Come è bello fa’ l’ammore quanno è sera sottolinea il passaggio al dopoguerra canoro di una Roma ormai profondamente cambiata sotto il profilo culturale, mentre Vecchia Roma, di Ruccione e Martelli del 1947, sembra registrare nostalgicamente questa trasformazione di costume e cultura.
Nello stesso anno anche Roma forestiera ripropone la reazione della cultura tradizionale all’invasione dei ritmi d’oltre oceano e alla esaltazione dell’americanismo, un discorso che di lì a poco verrà ripreso ironicamente da Carosone con Tu vuo’ fa’ l’americano:

   

Il prosieguo della canzone romana sarà affidato, da una parte, alle tante voci legate alla tradizione, fra cui emergeranno su
tutti Claudio Villa e il Murolo romano, Sergio Centi, dall’altra sarà soprattutto il varietà teatrale e televisivo dell’ultima “posteggiatrice” Gabriella Ferri, insieme alla commedia musicale di Garinei e Giovannini, Kramer, Rascel, Trovajoli, Proietti, a ridare linfa alla canzone romana.
Decine e decine di motivi tratti dalle commedie musicali opereranno una vera rifondazione del repertorio romanesco;
basta ricordare alcuni titoli come Roma nun fa’ la stupida stasera, Ciumachella de Trastevere, È l’omo mio:

      

È un repertorio ampio che apre le porte del palcoscenico anche a una nuova schiera di interpreti, fra i quali ricordiamo, oltre ai citati Proietti e Rascel, Montesano, Manfredi, Vanoni, Ralli, Dorelli, ecc.
In seguito anche la cosiddetta “scuola romana” dei cantautori, nata al Folkstudio di Roma, soprattutto per opera di Venditti e De Gregori, si accosterà al repertorio romano sfornando alcuni motivi di grande successo come: Roma capoccia, Grazie Roma, Sora Rosa e A pa’:
 
      
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STORIA DELLA CANZONE ITALIANA Empty LE TRADIZIONI REGIONALI DEL CENTRO-SUD

Messaggio  admin_italiacanora Mar Mag 26, 2020 9:37 pm

LE TRADIZIONI REGIONALI DEL CENTRO-SUD

La musica popolare da ballo, che nell’area centro-laziale si chiama saltarello e in Campania tarantella, unisce numerose tradizioni del meridione italiano fino alla Sicilia.
Rimandando a due capitoli specifici la storia della canzone napoletana, non bisogna dimenticare la ricchezza del repertorio presente nelle altre aree del sud d’Italia, in particolare quelle pugliesi e calabresi, la Puglia presenta a grandi linee due realtà culturali ben distinte.
Quella interna è segnata da una tradizione garganica più legata alla dimensione vocale e immortalata dalle voci di Carmelita Gadaleta e del “poeta contadino” di Apricena, Matteo Salvatore; ma non bisogna dimenticare che lo stesso Domenico Modugno, anch’egli pugliese, ha cominciato la carriera proprio interpretando il folk della sua terra.

Particolarmente rilevante il lavoro di Matteo Salvatore che, attraverso le sue rielaborazioni di nenie e ballate, ha fatto conoscere a tutto il mondo la tradizione musicale contadina delle terre pugliesi e le sue composizioni d’autore (San Michele del Gargano, Lu vecchiu, Vorrei cantar con te, La nascita, Lu grillu e la formica, ecc.):

      
 
 
Tutt’altra storia presenta invece la Puglia peninsulare, il Salento, segnata dalla grande tradizione della pizzica tarantata, ritmo indiavolato di origine mediterranea che ha mantenuto nel corso degli anni una straordinaria vitalità.
È sufficiente ricordare la rilettura della pizzica in versione rock e rap operata negli anni Novanta da numerosi gruppi della nuova generazione:

 
 
Sempre in Puglia, ma anche in alcune zone della Calabria, è presente con canti di vario tipo la tradizione canora albanese che negli ultimi anni ha visto un rilancio attraverso il lavoro di recupero di Silvana Licursi.
Il folk lucano e calabrese ha affidato il recupero dei canti della tradizione contadina al lavoro di nuovi interpreti, fra cui Antonello Ricci, e al rilancio di strumenti dimenticati come la zampogna.

Altro mondo ricchissimo di tradizione canora è quello siciliano dove i cosiddetti canti dei carrettieri e dei cantastorie hanno
mantenuto grande vitalità grazie al lavoro di artisti come Ciccio Busacca (Lu trenu de lu suli, Lamentu pi la morti di Turiddu
Carnevali, Lu piscaturi sfortunatu), Otello Profazio e Rosa Balistreri, che hanno rielaborato, talvolta ricreato ex novo, i repertori a partire da ciuri (gli stornelli siciliani a due o tre versi) o dalle canzoni di tradizione:

      
 
 
Difficile sintetizzare in poche righe il lavoro di artisti così importanti per la politica e la cultura siciliana.
Otello Profazio e Rosa Balistreri insieme hanno dato vita a una rilettura fondamentale per la conoscenza della musica tradizionale siciliana; ricordiamo fra i lavori comuni Levatillu stu cappeddu, La barunissa di Carini, Mi votu e mi rivotu:

      
 
 
In altri casi il loro lavoro si è basato invece sulle liriche del poeta siciliano Ignazio Buttitta.

Infine merita un discorso a parte la realtà musicale sarda, un vero continente sonoro per ricchezza e varietà di tradizioni, dove pratiche ancestrali di antichissima memoria sono ancora popolarissime.
Nell’isola è ancora assai diffusa la polivocalità virile eseguita dalle formazioni dei tenores barbaricini e della tasgia gallurese, un
patrimonio millenario che ha conosciuto uno straordinario rilancio internazionale anche nell’ambito della musica pop, grazie
all’interesse di artisti come Peter Gabriel.
Ancora molto vivi sono i canti lirici-monostrofici – muttos, muttettos, battorina –, quelli religiosi e soprattutto la pratica del ballo popolare con accompagnamento di organetto o launeddas, lo straordinario triploclarinetto sardo che funziona come una zampogna anche se utilizza la riserva d’aria fornita dalla cavità orale del suonatore anziché dall’otre di pelle.

Infine non bisogna dimenticare che anche l’isola sarda ha avuto la sua Rosa Balistreri, la sua Giovanna Daffini, nella voce della
cantante di Siligo (Sassari) Maria Carta.
Famosissime sono le interpretazioni di canti provenienti dalle zone di Logudoro, Gallura e Campidano quali Su Cantu in re (nato in Logudoro), da cui derivano alcune varianti, S'isulana una versione semplificata della cosiddetta Piaghesa antica, Sa Nugoresa, Sos Mutos, La Tempiesina, (nato a Tempio, in Gallura), La Filognana (noto anche come sa Filonzana) di origine gallurese, come La Corsicana e Su Trallalleru, originario del Campidano.

      
 
 
Filastrocche e canti religiosi

Pur non volendo deviare il discorso dall’argomento principale che è la canzone, il resoconto non sarebbe completo se non si facesse almeno cenno a un ampio repertorio di canti, stile e funzionalità diversi, che però hanno in vario modo influenzato la canzone.
Si tratta per esempio di «racconti, filastrocche, girotondi, canzoncine e ogni altra forma di poesia popolare che gli addetti ai lavori comprendono nella definizione globale di “rime infantili” /che/ sono una delle componenti più importanti nel campo dello studio della comunicazione orale»; non a caso a esse sono stati dedicati ampi studi e ricerche.
Nel 1920 Elisabetta Oddone ha pubblicato il volume Cantilene popolari dei bimbi d’Italia, nel 1937 l’editrice Rispoli ha edito Come giocano i bimbi d’Italia, poi nel 1941 è uscito Il canzoniere dei fanciulli di Achille Schinelli.
Più di recente (1969) la Fondazione Besso ha pubblicato Conte, cantilene e filastrocche descritte e illustrate dai bambini, a cura di Maroni Lumbruso, e Canti per giocare (1980) di Goitre e Seritti, seguiti, nel 1981, da O che bel castello di A.V. Savona e da Ninne Nanne di Tino Saffiotti.
L’ampia pubblicistica dimostra che in tutto il paese esiste una grossa produzione di cantilene e filastrocche, dalla ninna nanna friulana Sdrindulaile alle nenie per bambini toscane Bovi, bovi, dove andate? e Fate la nanna coscine di pollo, alla canzone d’amore laziale poi trasformata nel canto per bimbi O bella che dormi, o infine a quelle siciliane Figlio mio ti voglio bene e Er alavò.

      
 
 
Discorso diverso riguarda le filastrocche funzionali al gioco e alla socializzazione, fra cui è sufficiente ricordare le famose Giro giro tondo, O quante belle figlie, È arrivato l’ambasciatore, Al canto del cucù, La fiera di mast’André, perché, per le loro stesse caratteristiche di ripetitività e cantabilità, sono state quelle più sottoposte a rielaborazioni e reinvenzioni e quindi hanno più spesso incrociato il cammino delle canzoni, come nel caso di Girotondo di Fabrizio De André e degli Area o delle ballate di Angelo Branduardi, dove sono presenti ampie citazioni da filastrocche e cantilene popolari:

      

      
 
 
Al settore dei canti per bambini va avvicinato quello delle canzoni ecclesiastiche o ispirate a riti e momenti religiosi, perché anch’esso è costituito da brani con un fine morale e con funzioni non consumistiche.
Di questo ambito fanno parte le canzoni del Natale e della Pasqua e quelle che celebrano le figure della fede.
Non deve apparire strano che si inseriscano in questa ricerca motivi dedicati ad argomenti sacri, se si pensa, a esempio, che Bianco Natale (White Christmas), del celebre interprete americano Bing Crosby, è il brano in assoluto più venduto e popolare della storia della canzone mondiale.
Le canzoni dedicate a questi argomenti, sia di origine laica che religiosa, sono numerosissime (alcuni esempi famosi sono Tu scendi dalle stelle, di Alfonso Maria de’ Liguori; Astro del ciel, Mira il tuo popolo, ecc.):

      
 
 
A queste si devono aggiungere le canzoni e le ballate provenienti dalla ricca tradizione dialettale, come a esempio la famosa Sant’Antonio del deserto, una ironica ballata appartenente alla tradizione abruzzese che può rappresentare idealmente le decine
di brani dedicati a santi e patroni del nostro paese:

 
 
Al di là del peso culturale e morale che questi brani hanno, abbiamo voluto ricordarli in breve perché in varie occasioni hanno influenzato, se non direttamente toccato, la canzone italiana, soprattutto quella d’autore; è il caso di Lucio Dalla, Fabrizio De André, Ivano Fossati.
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STORIA DELLA CANZONE ITALIANA Empty I CANTI DI MONTAGNA - CANTI PATRIOTTICI E POLITICI

Messaggio  admin_italiacanora Dom Lug 12, 2020 7:21 pm

I CANTI DI MONTAGNA

Il repertorio di canti di montagna ha avuto il momento clou nel 1926, quando si è costituito fra giovani artigiani, studenti e operai, il Coro della S.A.T. (Società Alpinisti Tridentini) con lo scopo di rielaborare per coro canti provenienti dalla tradizione delle valli alpine.
Da allora, grazie anche alla collaborazione di musicisti come Antonio Pedrotti, Luigi Pigarelli e dello stesso Arturo Benedetti Michelangeli, il complesso ha raggiunto alti livelli tecnico-esecutivi riuscendo ad amplificare un repertorio noto solo in campo localistico e a ridare memoria a eventi, spesso bellici, dimenticati, diventando un punto di riferimento per tutti gli appassionati del genere.
Il modello proposto dal Coro della S.A.T. è stato infatti poi imitato da decine di altri cori che hanno sviluppato il patrimonio dei canti di montagna proponendo, talvolta, brani d’autore.
In qualche caso tali brani sono entrati a far parte, oltre che del repertorio di interpreti della tradizione classica italiana, anche di quello di cantanti popolari come Claudio Villa, Francesco De Gregori, Fabrizio De André: fra i tanti ricordiamo La montanara (di Toni Ortelli), La paganella, Stelutis Alpinis, Quel mazzolin di fiori.

      
 
 
 
I luoghi d’origine di questo repertorio sono le zone che presentano forti rilievi montuosi e caratteristiche geografico-culturali particolari; non a caso è presente soprattutto in Piemonte, Val d’Aosta, Lombardia, Veneto, Friuli, Trentino, Alto Adige e Abruzzo.

Sviluppo a parte ha avuto il repertorio dei canti degli alpini, che può vantare un numero enorme di canzoni, legate per lo più a eventi bellici; ricordiamo fra le altre Monte Canino, Sul cappello, Sul ponte di Bassano, Ta-pum, Bersaglier ha cento penne, Dove sei stato mio bell’alpino?, Monte Nero, E Cadorna manda a dire, Monte Cauriol, O Dio del cielo (riletta alla fine degli anni Sessanta da Fabrizio De André), tutte di autore anonimo ed entrate a far parte dei classici dei cori di montagna.
 
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CANTI PATRIOTTICI E POLITICI

Accanto a questo repertorio della canzone di origine tradizionale esiste un consistente settore di canti patriottici e politici che, nel nostro paese, hanno accompagnato da vicino il periodo del Risorgimento influenzando sotto vari punti di vista la canzone italiana.
Nei testi, nel modo di cantare, nel coinvolgimento popolare e, sul piano culturale e politico, hanno dato il loro contributo alla crescita di una coscienza nazionale.
Si possono individuare due correnti nella canzone “epico-patriottica”, quella giacobino-repubblicana e quella patriottico-sabauda.
La prima deriva in gran parte dal repertorio della Rivoluzione Francese e in modo particolare utilizza come modello il canto di guerra dell’Armata del Reno, passato alla storia come La Marsigliese, al cui epico patriottismo si è ispirato sicuramente il Canto degli esuli che furono sconfitti nel primo moto insurrezionale del 13 marzo 1821.
Il Canto degli italiani, meglio noto come Fratelli d’Italia, di Goffredo Mameli e Michele Novaro (1847), ardente invocazione con cui il poeta genovese aveva voluto esprimere il suo entusiasmo per le imprese patriottiche del primo Ottocento, è sicuramente ispirato dai canti patriottici d’oltralpe.

   
 
 
Sempre sulla stessa impostazione si sviluppa l’anno dopo La bandiera tricolore, un inno musicato dal maestro Giovanni Zampettini su un testo del poeta Luigi Mercantini e ispirato dalla decisione del re Carlo Alberto di assumere come bandiera del regno il tricolore delle Cinque giornate di Milano; il canto è poi divenuto popolarissimo soprattutto fra i volontari italiani sparsi nei vari regni della penisola.
Nello stesso anno Mameli compone un secondo canto patriottico, l’Inno militare (Suona la tromba), con la musica di Giuseppe Verdi, un incontro che ha messo in contatto diretto il Risorgimento con il musicista che ha cantato la crescita della coscienza nazionale italiana attraverso le sue opere.
Se l’Inno di Mameli era stato il canto che aveva accompagnato la prima guerra d’indipendenza e la Repubblica Romana, La bella Gigogin si può considerare invece la canzone della seconda guerra d’indipendenza:

      
 
 
In questo caso si tratta di una vera e propria canzone in quanto La bella Gigogin non ha le caratteristiche degli inni, cioè il tono solenne ed enfatico che li ha sempre accompagnati.
La bella Gigogin è infatti proprio una canzone da marcia, musicata dal milanese Paolo Giorza basandosi probabilmente su testi di tradizione militare patriottica lombardo-piemontesi.
La canzone, presentata in pubblico nel teatro Carcano di Milano il 31 dicembre 1858, voleva spronare il re Vittorio Emanuele II a «fare un passo avanti» nell’unificazione italiana.

L’autore, dopo una certa popolarità come compositore di balli e direttore teatrale, morirà in miseria a Seattle nel 1914.
La bella Gigogin, pur con queste caratteristiche di canto militaresco, può essere considerata uno dei primi esempi di canzone italiana di uso nazional-popolare.
Alla guerra del 1859 sono legate anche altre due composizioni molto amate nel Risorgimento: Il povero Luisin, di autore ignoto e l’Inno a Garibaldi di Luigi Mercantini, con la musica di Alessio Olivieri.
In realtà all’Eroe dei Due Mondi sono dedicate decine di canzoni e inni di origine colta e tradizionale, che costituiscono un repertorio a parte.
In questo possono essere inserite anche canzoni dove il generale non c’entra ma alle quali sono state aggiunte strofe che lo riguardano, come nel caso della ballata tradizionale Bel uselin del bosc.

      
 
 
Fra le tante che riguardano invece direttamente Garibaldi o il suo movimento ricordiamo La morte di Ugo Bassi, Camicia rossa, La camicia rossa non me la tolgo, Garibaldi fu ferito, E a Roma a Roma, Siamo garibaldini.
La maggior parte di questi canti, salvo qualche caso particolarmente ispirato, era orientata secondo un indirizzo narrativo e retorico in genere a ballata:

      

   

Questa forma canora ha avuto grande fortuna nel nostro paese soprattutto durante il periodo della canzone politica e comunque è stata riproposta in numerosissime versioni diverse fino ai giorni nostri.
Fra le canzoni più popolari del periodo risorgimentale bisogna ricordare ancora La partenza del soldato di Carlo Bosi, diventata celebre come Addio mia bella addio e successivamente, quando la battaglia per l’unificazione d’Italia sembrava finita, l’Inno a Oberdan del 1882, dedicato alla lotta irredentista di Guglielmo Oberdan:

   
 
 
Al di là dell’aspetto tecnico, il repertorio di canti sociali e patriottici ha lasciato il segno anche perché è l’ultimo in cui viene proposta un’identità di passioni sull’idea di patria e nazione, fra popolo e stato.
A partire dal primo Novecento il ruolo autoritario del regno d’Italia, poi il fascismo e il movimento di ispirazione socialista, apriranno una frattura fra gli autori dei canti e l’idea di patria, una spaccatura ancora aperta nella fase odierna in cui sono sempre più rare le composizioni che accennano al tema della “Nazione Italia”.

Un discorso a parte merita il repertorio della canzone anarchica, che ha avuto un enorme sviluppo nella seconda metà dell’Ottocento grazie soprattutto al lavoro di Pietro Gori; nato a Messina da genitori toscani nel 1865, Gori trova a Livorno la base per l’impegno nel movimento anarchico.
Espulso dall’Italia nel 1894 finisce a Lugano dove continua il suo impegno politico; proprio l’espulsione dalla Svizzera gli ispira Addio Lugano bella, uno dei canti politici – curiosamente a ritmo di valzer – più amati non solo fra la schiera degli attivisti anarchici.
La produzione canora di Pietro Gori è stata molto fertile; dopo una provocatoria versione di Va’ pensiero con il titolo di Inno del Primo Maggio, l’autore firma gli Stornelli d’esilio e Sante Caserio:

      

 
 
Sempre del settore dei canti politici e sociali fa parte il grande repertorio dei canti socialisti emersi alla fine dell’Ottocento insieme allo sviluppo dell’ideologia marxista.
Oltre al famoso Internazionale, che ha avuto una versione italiana, si segnalano l’Inno dei lavoratori, scritto nel 1886 dal giovane Filippo Turati su una melodia di Amintore Galli, e soprattutto Bandiera rossa, la più famosa canzone politica italiana.

      
 
 
Sia la sua datazione – dovrebbe risalire al primo decennio del secolo – sia gli autori sono ignoti; è probabile che si tratti del risultato di una lunga serie di arie tradizionali, forse lombarde, su un testo (anche questo è incerto) di Carlo Tuzzi.
Fra le canzoni legate ai problemi del lavoro bisogna ricordare Le otto ore, impostata sul motivo di La bandiera tricolore, e la già citata Gli scariolanti, che narra la vicenda dei lavoratori della grande bonifica ferrarese alla fine del secolo scorso:

   
 
 
Sono poi numerosi i canti che raccontano il dramma dell’emigrazione avvenuta a cavallo fra i due secoli.
Tra le tante Maremma, antico canto tradizionale toscano dedicato all’emigrazione interna fra le zone appenniniche e la Maremma, nuova “California” toscana.
Poi Trenta giorni di nave a vapore e la celeberrima Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar, una canzone molto interessante anche per la continua opera di rilettura che ha subìto nel corso del Novecento.
Ha preso origine da una ballata, forse intitolata La figlia disubbidiente o La maledizione della madre, per trasformarsi agli inizi del secolo nel celebre canto d’emigrazione che tutti conoscono.
Fra gli anni Trenta e Sessanta è stata cantata un po’ da tutti i cantanti melodici italiani che ne hanno sfumato il contenuto sociale per trasformarla in una canzone popolare;
 
 
      
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